L'imprinting può dunque essere caratterizzato da tensioni emotive elevatissime che rischiano di non trovare, proprio nella relazione cui sono affidate la vita e la speranza della persona, usa sufficiente via di espressione e di rielaborazione.
Non vi è, peraltro, ragione di pensare che tale posizione stressante debba riguardare unicamente la persona ammalata. Esso è potenzialmente presente in tutti coloro che partecipano a queste vicende e assume potenziali caratteristiche differenti in virtù del "ruolo" che ognuno ha (oltreché delle differenti personalità).
I medici, ad esempio, hanno elevate conoscenze di tipo "B" (quelle relative ai dati epidemiologici, alle probabilità di sopravvivenza) e ogni volta, di fronte ai loro pazienti, possono ragionevolmente avere in testa una prognosi "clinico statistica" che, se tendenzialmente infausta, resta in loro come "segreto" non facilmente comunicabile (per ragioni scientifiche, culturali, etiche, deontologiche).
Il possibile stress afferente questa posizione relazionale del medico appare collegabile al problema di curare con poca speranza (o nessuna) di salvare e al problema di non sapere come dire la verità al malato.
Del secondo tema si discute molto (e pubblicamente), mentre del primo non si fa altrettanto, forse per il fatto che rientra nel codice scientifico della medicina misurarsi con le grandi malattie tenendo accesa la speranza di guarire nel futuro ciò che oggi appare non guaribile.
Ma questo codice professionale implica anche che il medico, quando pensa che "questo" paziente non ce la faccia a guarire, possa sentirsi impotente (perlomeno per quanto riguarda quella parte della sua cultura professionale che, sin dall'università, gli prescrive di lottare contro la malattia per sconfiggerla) e che debba quindi investire molte energie per far fronte ai suoi sentimenti di scacco professionale e per evitare di trasferirli sulla persona in cura.
Reazioni ai sentimenti di impotenza possono essere il distacco, il paternalismo, l' accanimento terapeutico.

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