Io dedico parte del colloquio alla raccolta dei dati anamnestici della paziente non tanto legati alla malattia, quanto alla storia personale e familiare. Già in questa fase, gli occhi abbassati, le mini tremanti, le parole balbettate, sono segni potenziali di ciò che preoccupa realmente la donna.
Ad essi do la stessa importanza dei sintomi da lei descritti, poiché buona parte della comunicazione in questo colloquio, non è verbale.
Non sono in grado di proporre una rigida scheda anamnestica, tuttavia i miei oggetti primari di indagine sono:

1) la famiglia: l'età dei figli e del coniuge è un elemento importante per comporre il nucleo familiare, identificando eventuali anelli forti di riferimento o anelli deboli (es. figlio drogato o coniuge malato).
Anche la presenza di bambini piccoli comporta una maggiore attenzione perché maggiore sarà la paura della madre di lasciarli in tenera età.
La presenza di un genitore anziano non autosufficiente o addirittura costretto a letto, induce la paziente a chiedere più rassicurazioni per la funzionalità delle sue braccia, che per la sua vita.
Se la paziente ha uno o più parenti stretti ammalati di cancro, ha fatto le sue esperienze con questa malattia, nel senso che sa, meglio di me, cosa vuol dire vivere con essa.
Per tale ragione, io cerco di ascoltarla attentamente prima di sfornare battute trionfalistiche sulla curabilità della malattia.

2) Il livello culturale, le condizioni economiche, il lavoro, la religione ed altro.
In questa fase mi impongo di dare spazio alla paziente senza interromperla. Tutto quello che viene detto è importante per capire la sua situazione di vita, così come è pure importante cogliere i segnali che vengono inviati e che rivelano altre paure oltre a quelle generate dalla malattia.
Una paziente disoccupata sarà angosciata sia dall'eventuale costo delle cure, sia dal timore di non poter più trovare un lavoro.
Con le pazienti che manifestano una fede religiosa è più facile definire il ruolo del medico curante e distinguerlo da quello del medico-guaritore.
Per cementare la relazione, ho l'abitudine di comunicare non solo il numero di telefono dell'ospedale, ma anche quello di casa. Quasi mai il paziente abusa di quest'ultimo.
Le rare volte che è successo ho proposto ad ogni telefonata un incontro "vis a vis" in ore impossibili: nel giro di dieci-quindici giorni ho risolto il problema!
Il fatto di avere il numero di casa del medico (e non solo del suo studio) costituisce per la paziente un importante punto di riferimento e una fonte di sicurezza.
In Associazione, e dalle donne, ho imparato che identificandosi nell'altro, si può riuscire a banalizzare il problema per sdrammatizzarlo.
Sono sempre consapevole però che con la banalizzazione si corre il rischio di minimizzare (il problema) e di non permettere alla paziente di fare emergere le sue paure e i suoi fantasmi di morte.

pagina precedente pagina successiva