In letteratura sono stati proposti diversi modelli di comportamenti del medico (paternalistico, informativo, interpretativo, deliberativo...). La mia esperienza personale ad Attivecomeprima e all'interno dell'istituzione ospedaliera, mi ha portato a incontrare migliaia di donne, ciascuna con una propria storia e un proprio modo di affrontare la malattia e la vita in genere.
Non mi è tuttavia possibile proporre un modello ideale di comportamento. Negli ultimi anni, amplificando la capacità di ascolto, pur nel riconoscimento dell'unicità di ciascun individuo, sono stato in grado di evidenziare alcuni punti generali, che mi sembrano fondamentali, da cui la relazione medico/paziente non può prescindere.
Le donne considerano indispensabili, per quanto attiene al medico, gli aspetti di sicurezza, competenza e sincerità, che generalmente emergono nel primo colloquio o in quello decisivo in cui si deve comunicare la "sentenza di morte".
Nel corso o alla fine di questo colloquio, con la assoluta determinazione e apparente irrazionalità che caratterizza il colpo di fulmine in amore, la paziente sembra arrendersi alla volontà del medico. In realtà è sempre la donna in piena autonomia, che decide da chi "farsi mettere le mani addosso", dopo avere consultato, mediamente, almeno due specialisti.
Non sempre esistono le condizioni perché questa comunicazione si verifichi in un ambiente calmo e tranquillo e non sempre il medico è in grado di dedicare una quantità di tempo adeguata ad un colloquio di tale importanza.
Mi sono reso conto, per fortuna, che occorre lo stesso tempo sia per parlare in modo freddo e incomprensibile, magari lavandosi le mani dando le spalle alla paziente, sia per condurre un discorso in modo umano, comprensibile e colmo di empatia, guardando negli occhi la paziente.
Il giovane e garbato medico curante di mia madre, se avesse fatto ricorso alle sue doti di umanità, che pur possedeva, avrebbe potuto identificarsi con il sottoscritto e porsi dal mio punto di vista.
Mi rendo conto tuttavia che, nonostante si tenti spesso di utilizzare un linguaggio comprensibile, il paziente, per ovvi meccanismi di difesa, tende a fraintendere, a rimuovere, a dimenticare.
È necessaria quindi una grande disponibilità a ripetere la comunicazione.
Il colloquio è talvolta più semplice se la paziente è accompagnata da una amica o da un familiare. Tale situazione si verifica però meno frequentemente, perché le donne tendono a venire da sole.
D'altra parte, la presenza di una seconda persona costringe ad aprire un secondo canale di comunicazione e può complicare anziché semplificare una situazione già in sé difficile.
Ciò è vero soprattutto quando non vi è sintonia nel modo di percepire la comunicazione e si rende necessario adattare il discorso a due modi di "sentire" differenti.
Un altro punto fondamentale riguarda le nostre valutazioni su quello che è stato comunicato o fatto in precedenza da altri colleghi. Mi impongo infatti di considerarlo nel modo migliore, anche se non sempre è facile, per evitare che un eventuale ritardo diagnostico possa essere vissuto negativamente dalla paziente e che questa finisca per colpevolizzare se stessa per errori o omissioni di altri.
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