IL CONTESTO
L'idea probabilistica della morte
Se ci ammaliamo di cancro, sappiamo di avere una certa probabilità di morire, di guarire o, comunque, di sopravvivere per un determinato periodo.
Anche al di là del cancro, questa sorta di "idea probabilistica" della morte non è, però, di per sé estranea alla psiche umana. Senza alcuna necessità di conoscere la statistica, abbiamo imparato precocemente ad avventurarci nella vita, accettando una certa dose di rischio connessa a ogni progresso, a ogni crescita e progressiva acquisizione dell'indipendenza e dell'autonomia. Possiamo dunque dire che l'idea probabilistica della morte ci appartiene, fa parte dei nostri processi psichici vitali ed è collegata alla nostra di capacità di accettare rischi proprio in nome della possibilità di vivere!
Nel corso degli infiniti adattamenti che costellano la vita umana, tale idea appare venata da un ché di "naturale", che non la rende traumatica anche perché, almeno per il lungo periodo della crescita, l'assunzione di rischi è stata sorvegliata dapotenti agenzie educative (la famiglia, la scuola...) che cercano di garantire che tali rischi siano adeguati alle nostre capacità di affrontarli.
La conoscenza dell'ambiente, la capacità di utilizzare l' esperienza per compiere generalizzazioni e ipotesi sul futuro sono potenti strumenti che ci aiutano a sentirci abbastanza al sicuro nella vita quotidiana, anche se compiamo operazioni rischiose come andare in automobile, maneggiare apparecchiature elettriche, cambiare lavoro, innamorarci ecc.
Se invece ci ammaliamo di cancro, il rischio di morte, confinato sino ad allora in una zona "di contesto" della mente (fuso cioè nelle abituali condizioni ambientali accettate e, come tale, tenuto sotto controllo e ricondotto ad una certa "naturalità" del vivere) irrompe prepotentemente all'interno dell'orizzonte vitale e tende ad essere avvertito come un rischio "innaturale". Ciò deriva senz'altro dal noto ostracismo dato dalla nostra cultura alla malattia grave, quella per la quale si muore davvero. Quasi non fosse invece "naturale" che ci si possa ammalare e morire. In fin dei conti, nei nostri geni non è scritto che l' individuo debba sopravvivere indefinitamente; ciò non èscritto neppure nella psiche, tant'è che l' adattamento affettivo e mentale alla morte è una funzione dei processi di crescita e invecchiamento; la stessa per la quale, anche in modo del tutto inconsapevole, persone giovani possono pensare la loro vita su lunghi tempi e persone meno giovani su tempi più brevi.
L'incontro con il cancro fa saltare i progetti, brevi o lunghi che siano, induce una sorta di senso disperato e desolato di rovina, poiché introduce direttamente nel campo vitale un "principio di incertezza" (vivrò? quanto ancora? come?) sino ad allora confinato in un'area psichica presidiata da difese o comunque accettato come condizione "sotto controllo" della vita.
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