Il tempo passava e io vivevo ogni giorno come un dono, come un "supplemento di vita" da non sciupare nemmeno per un istante.
Riuscivo a non dare più troppa importanza alle piccole cose che prima mi facevano soffrire e non pretendevo più di cambiare gli altri: stavo cambiando io! Finalmente potevo permettermi di cogliere l' alito della vita nella sua essenza, al di là del tempo che mi sarebbe rimasto.
Era come se fossi morta a me stessa e poi rinata.
Era bello scoprire un rinnovato piacere di esistere, di camminare, correre, ascoltare, condividere, amare e sentirmi amata!
Il mio corpo era rivitalizzato da una grande energia che nasceva dal profondo.
Ciò che descrivo in poco spazio è stato un arduo ma affascinante percorso durante il quale ho sempre cercato un'amica: me stessa.
Mi hanno aiutata a trovarla: il bisogno di esprimere me stessa in modo autentico, l' accettazione dell'idea della morte, i forti affetti, l' alleanza dei medici e la convinzione dell'esistenza di vita oltre la vita terrena.
Voglio raccontare un episodio buffo di questo mio percorso.
Circa un anno dopo l'intervento, ormai decisa ad affrontare fino in fondo i fantasmi della paura, chiesi e ottenni di lavorare presso il servizio di riabilitazione fisica dello stesso Istituto Tumori di Milano ove ero stata operata e poi irradiata.
Lì potei conoscere e ascoltare molte donne che stavano vivendo la mia stessa esperienza e insieme comprendere che c'era bisogno di far qualcosa per curare la ferita invisibile e profonda che il cancro lascia dentro anche dopo la sua asportazione.
Qualche anno dopo, nel 1973, insieme al Professor Pietro Bucalossi (Direttore dell'Istituto Tumori) e ad altri specialisti dello stesso Istituto, decidemmo di riunire le donne che avevano subito un intervento chirurgico al seno per fondare un associazione che fu poi denominata "Attivecomeprima".
Per realizzare ciò si dovevano prima individuare donne con un buon decorso post operatorio e poi riunirle.
Ci mettemmo all'opera: il Direttore Sanitario e io selezionavamo dall'archivio le cartelle cliniche con i requisiti prestabiliti. Il mio compito era di scegliere le cartelle che indicavano un evidente buon decorso e scartare le altre.
Avrei dovuto sottoporre al Professore quelle che mi suscitavano dubbi.
Tra le tante cartelle esaminate, arrivai finalmente ad avere tra le mani la mia.
Erano trascorsi circa tre anni dall'intervento e oramai psicologicamente "vaccinata" all'idea della morte, mi sentivo così contenta d'essere ancora viva che ebbi la spinta umoristica di girare la pagina che portava il mio nome e di mostrare requisiti, per me dubbi, di "quella donna" al Professore.
Lui lesse attentamente ciò che stava scritto circa la diagnosi, la prognosi (definita particolarmente infausta), la scarsa probabilità di sopravvivenza, l' esito dubbio dei controlli e, stupito, mi rispose: "ma sei pazza? Non hai capito come si lavora? Questa donna non la si può chiamare!".
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