Quando accade di poter morire

Alberto Ricciuti Medico di medicina generale.
Responsabile del Servizio di Supporto di Medicina Generale durante la chemioterapia.

Tutti gli esseri viventi si dice che sono tali proprio perché muoiono. L’uomo però è l’unico che sa di dover morire. E ciò che è straordinario, è che proprio da questa consapevolezza riesce a trarre la capacità di elevarsi oltre i limiti della sua condizione, della sua finitezza.
Se c’è un’esperienza assolutamente privata nella nostra vita, che non possiamo raccontare a nessuno, è quella della nostra morte e del mistero inesprimibile che l’avvolge. Un mistero, come dice Vladimir Jankélévitch, caratterizzato dal fatto che non è un segreto (quale per esempio il segreto della bomba atomica, della pietra filosofale, dei violini di Stradivari ecc. [...]). Nessuno possiede il segreto della morte - semplicemente perché non c’è alcun segreto.
Non è un segreto. Ma proprio perciò la morte è un mistero. [...] Si tratta di un mistero in totale trasparenza: intrinseco al fatto stesso di esistere [...].
Ma se un segreto può essere scoperto o svelato, un mistero può essere solo penetrato o rivelato. Ed è esattamente ciò che da sempre accade e ciò in cui la stessa natura umana consiste.
Per conoscere il mistero della morte l’uomo ha da sempre due sole possibilità: accogliere come Verità la Rivelazione che su di essa gli giunge da millenni, oppure varcare la soglia e andare a vedere...

 La paura di non esistere più

L’immensa produzione artistica di pittori, architetti e musicisti, le pagine e pagine scritte da poeti, uomini di scienza, santi e filosofi, e la testimonianza di quei medici che non si sottraggono a vivere insieme ai loro pazienti i momenti del morire, mostrano con chiarezza che, al di là della paura del dolore - che peraltro oggi sempre più raramente rappresenta un problema - c’è una paura ben più profonda che è spesso causa delle maggiori angosce e sofferenze: la paura di non esistere più.
Questo è il punto.
Ma se la Medicina su questo non ha nulla da dire né nulla può dire, il medico che accompagna alla soglia del mistero il proprio paziente è coinvolto in questo genere di riflessioni, sia come uomo di fronte alla morte dell’altro - la morte vista dal di fuori - sia come medico di fronte al malato quando questi, in modo più o meno esplicito, gli pone il problema alla ricerca di un po’ di serenità.
Ma le sue risposte, verbali o no che siano, hanno sempre a che fare con l’immagine che egli ha della propria morte, col suo personale rapporto col mistero - con la morte vista dal di dentro.
L’uomo, per controllare le sue paure e attenuare le sue angosce, usa la ragione alla ricerca di certezze e di speranze. Ma la consapevolezza che è possibile sperare è già in qualche modo un frammento di certezza, ed è quanto basta per trasformare la paura di non esistere più nella speranza di poter esistere ancora.
E qui dobbiamo ammettere che la scienza si ferma. Nessuno strumento, nessuna sonda è possibile inviare per esplorare il mistero. Possiamo però riflettere o meditare su alcuni argomenti che dilatano e arricchiscono la nostra rappresentazione della morte e del morire e che possono, ragionevolmente, sostenere la speranza di poter esistere ancora.

 La dissimmetria tra i destini del corpo e della mente

“Noi ci sentiamo come se fossimo gli ospiti del nostro corpo. Un braccio, una gamba possono venirci amputati senza che il nostro io perda alcunché della sua sostanza”, così scriveva Ernst Bloch nel 1923. Ed è questo io il problema col quale l’uomo si cimenta dall’inizio dei secoli da dentro la sua prigione corporea. Prigione grazie alla quale - solo in apparenza paradossalmente - quello stesso io può liberarsi dalle sue catene ed elevarsi progressivamente fino alla soglia dell’infinito. Questo è ciò che accade.
Per un misterioso divertimento della Natura, mentre il nostro corpo via via si deteriora e invecchia, mentre si dibatte nel suo inevitabile irrigidirsi, l’io cosciente progressivamente si eleva, la sua sensibilità si affina, la sua capacità di amare si completa.
Dal giovane baldanzoso... al vecchio saggio.
Così Jean Ziegler descrive questo processo: Nessuna morte colpisce [...] l’attività intellettuale dell’uomo. Al contrario, tutto avviene come se la coscienza fosse destinata ad essere eterna, quasi che la sua attività andasse crescendo con gli anni in ampiezza e intensità. In altre parole, sembra che l’indebolirsi del suo sostegno fisiologico trascini la coscienza, quasi suo malgrado, in un’avventura che non la riguarda.
Più volte nei secoli, per opera di filosofi e scienziati, l’uomo ha esplorato la possibilità di descrivere se stesso attraverso le teorie e i processi che la sua stessa mente ha concepito, ma nel fare questo è caduto nella trappola di identificarsi con quelle stesse teorie e quegli stessi processi, fino a produrre un’immagine irriconoscibile di sé, “così appunto” - scrive efficacemente Aldo Gargani - “come un uomo che esca di casa per spiare dalle finestre se lui è in casa”, e così facendo non riesce mai a trovarsi.
E questo è fonte di sofferenza.
Ma per l’evidente dissimmetria fra i destini del corpo e della mente, ogni tentativo di ridurre quest’ultima - e la nostra coscienza - ai processi biochimici elementari che ne consentono la sua tangibile manifestazione, appare come un processo a ritroso, un’implosione autodistruttiva in virtù della quale la coscienza stessa si atomizza nei suoi presunti costituenti molecolari fino a sciogliersi come neve al sole.
Ma l’immortalità delle molecole (tali effettivamente sono) non è l’immortalità dell’uomo, né tanto meno della sua coscienza.
Come scrive Jean Baudrillard: Nell’accezione classica, gloriosa, l’immortalità è la qualità di ciò che accade al di là della morte, la qualità del sopra-vivente.
Nella versione contemporanea, invece, l’immortalità è una qualità del sopravvissuto, in altre parole di ciò che è già morto, e che per questa ragione diviene immortale, ma non più allo stesso modo. Non è più una qualità fatale, è la qualità banale di ciò che non subisce più la minaccia della morte perché è già morto.
E così, seguendo questa via, che ci porta a frugare fra le ultime briciole del nostro essere, rischiamo di perdere persino il senso della vita, il cammino in ascesa di quella coscienza che noi siamo.
Scrive Aldo Gargani: La mente infatti è un rapporto con la morte. Se non si precipita di quando in quando, di tempo in tempo, nella nostra morte, noi non riusciamo a scoprire la nostra mente; si pensa perché si muore, si comincia a pensare da quando si comincia a morire, si comincia a pensare esattamente da quel punto temporale nel quale noi cominciamo a lasciar morire qualcosa di noi stessi. Quando lasciamo morire una quantità di pensieri che sono stati fabbricati per noi, diventiamo allora la mente che noi siamo.
La mente è l’attività di lasciarci morire per ottenere un nuovo pensiero e questo pensiero è la mente che si origina dalla traccia del nostro destino mortale. Possiamo pensare, possiamo diventare quel noi che è la nostra mente, quando diventiamo lo sguardo che getta luce su quello che non siamo più.

L’inganno di una rappresentazione spaziale del tempo

 Se il nostro corpo ha a che fare con la categoria dello spazio, la nostra mente ha a che fare con la categoria del tempo.
Il fatto è che ogni nostra esperienza temporale passa attraverso la dimensione spaziale del corpo e dell’ambiente nel quale questo si muove. Quando pensiamo alla nostra vita viene quindi spontaneo rappresentarla nella nostra mente come un lungo segmento che inizia con la nascita e finisce con la morte.
Questa rappresentazione geometrica del nostro tempo di vita, con gli anni 9 al posto dei centimetri, ci porta non solo a paragonare spesso la nascita con la morte, ma anche a pensare all’al di qua della nascita e all’al di là della morte come alla retta alla quale il segmento della nostra vita appartiene. Una rappresentazione decisamente improbabile quanto ingenua.
Ci avverte ancora Jankélévitch: “È il mito della simmetria, un mito spaziale - allo stesso modo che il pendolo sta fra due candelabri sopra il caminetto.
Ma la vita è tempo.
E il tempo non può essere disteso nello spazio.[...] Di conseguenza, la morte e la nascita non sono simmetriche. La simmetria è spaziale, non temporale - sono due cose incommensurabili.[...] La morte non è una nascita vista al rovescio, né la nascita una morte vista al diritto - così come il passato non è un futuro al rovescio e il futuro un passato al diritto: il passato e il futuro non sono da un lato e dall’altro del presente. Piuttosto, io vivo in un continuo presente...”

E la capacità di mantenere l’attenzione consapevole orientata al nostro presente può aprire alla coscienza una porta d’accesso all’infinito e aiutarci a coltivare dentro di noi la consapevolezza di una più corretta rappresentazione del tempo, di noi rispetto al tempo, di noi nel tempo.
Mentre secondo il senso comune (per esempio in molte credenze in un al di là ‘ingenuo’) l’al di là è immaginato come un semplice prolungamento dell’al di qua.
Ma l’infinito non è un finito infinitamente esteso, è una dimensione dell’essere affatto diversa. Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni - scrisse William Shakespeare - e questa affermazione potrebbe non essere solo una efficace immagine poetica.
Se quel noi ha a che fare con la nostra coscienza, allora ne possiamo trovare ogni giorno esperienza tangibile nella dimensione atemporale del nostro corpo sognato, dove lo spazio si contrae, il tempo si dilata e nella sospensione tra un battito e l’altro del nostro cuore possiamo vivere una storia infinita.

Stefano Gastaldi.
Psicologo e psicoterapeuta.
Conduce in Associazione il gruppo “La terapia degli affetti”.

 Così come nasciamo dotati delle capacità di entrare nella vita, noi esseri umani siamo altrettanto capaci di lasciarla. I nostri affetti ci preparano infatti alla morte in modo quasi sempre invisibile e continuo. Con il passare degli anni il corpo cambia, evolve, invecchia. Già nell’adolescenza lo sviluppo che imperativamente irrompe a sconvolgere il corpo infantile porta con sé la perdita di quella sorta di immortalità che dà l’essere bambini.
Mi è capitato, una volta, di discutere in una classe delle scuole medie superiori (ragazze e ragazzi di 16 anni) e di trovarmi di fronte una loro idea un po’ curiosa, che riassumo così: “bisogna divertirsi, fare esperienze, godere la vita in questi prossimi due-tre anni” (perché?) “perché poi si finiscono gli studi, si comincia a lavorare, ci si sposa, si fanno i figli, si diventa vecchi e poi si muore”.
La vita da adulti, a 16 anni, può essere vista come un frenetico scivolo verso la morte! Anche più avanti negli anni l’idea della morte fa capolino nella mente degli esseri umani.
Quando si vedono crescere i propri figli, per esempio, si vive da un diverso punto di vista una riedizione delle emozioni già vissute verso i propri genitori: il fatto di averli raggiunti e superati, di vederli invecchiare, di tenere a bada e allontanare dalla mente l’idea che prima o poi ci lasceranno... Anche i nostri figli ci raggiungono e ci superano.
É ciò che più intensamente desideriamo. Al tempo stesso la loro crescita ci comunica che un giorno dovremo lasciarli... Senza bisogno di avere figli, basta guardarsi nello specchio per scoprire i cambiamenti che il tempo scrive sul nostro corpo, leggere i segnali dell’invecchiamento (che nel nostro tempo sono sentiti come negativi perché vi è una sorta di follia collettiva che impone di vivere perennemente nel mito della giovinezza fisica, della bellezza evanescente, sogni deputati a favorire il mercato dei consumi.
O è forse il mercato dei consumi anche una espressione dell’incapacità dei popoli più industrializzati di recuperare l’intimo contatto con la natura e, con essa, con l’idea della morte?).
Arrivano dunque i giorni in cui può capitare il pensiero, fugace, di non essere eterni. Se si è anziani e i coetanei cominciano a morire ci si sente come dei sopravvissuti alla propria generazione: “É morto Mastroianni, è morta Madre Teresa di Calcutta, è morto... ci sono rimasto solo io” mi diceva ironicamente un signore che conosco.
Però l’idea della fine ci aiuta a essere più creativi, è una sorta di ingrediente segreto dei processi che ci spingono a immaginare scenari che vanno oltre la nostra vita, a lasciare qualcosa che duri, che valga, che abbia un senso che travalica la nostra esistenza. Questo strano dono della morte occupa una parte consistente del nostro vivere.
Creare ricchezza, bene, nella sua infinite forme serve anche a lasciare un segno di sé. La consuetudine di fare testamento o le leggi che regolamentano la trasmissione per via ereditaria dei patrimoni e dei beni personali sono, da questo punto di vista, un modo di tutelare la discendenza biologica ma anche di garantire il riconoscimento della sopravvivenza di qualcosa che noi abbiamo creato, al fine che possa andare ad arricchire la vita di coloro che ci sono più vicini o che ne garantiranno il mantenimento e lo sviluppo.
I testamenti sono spesso opere di letteratura e di poesia, scritte con una visione cosmica della vita, indirizzate a posteri che ne sentiranno il suono, ne valuteranno i contenuti, ne gradiranno o meno le disposizioni, ma non potranno comunque sottrarsi alla voce che, dopo la morte, ancora parla di un universo di emozioni, valori, affetti (positivi o negativi) che sono stati un essere umano.
Lasciare di sé un ritratto (come in voga nel passato nelle famiglie aristocratiche e ora ancora nelle famiglie borghesi), un oggetto personale a un figlio, una donazione a una istituzione benefica, scientifica, religiosa, sono modi di seminare una parte della propria identità che produrrà memoria, lavoro, ricchezza, sia pure in minima parte.
Sono poche le persone che desiderano che ciò che lasciano resti immutato nel tempo (ad esempio che i figli vivano nella casa di famiglia). Come i geni posti nei figli non danno forma a una mera replica dei genitori, ma a esseri umani originali, così i beni materiali, intellettuali e affettivi che si mettono negli altri saranno trasformati, subito o nel corso delle generazioni, costituendo ricchezze di cui non è dato conoscere l’evoluzione.
La preparazione alla morte é la vita, nel senso che il modo in cui si vive è anche quello in cui, solitamente, si muore.
Una vita in cui ci appassioniamo delle cose, le trasformiamo, ne godiamo il senso e l’importanza ci può disporre meglio ad accettare l’idea della morte. Abbiamo infatti più da perdere, ma abbiamo anche avuto e possiamo lasciare molto dietro di noi.
Una vita povera di affetti, tormentata e insoddisfacente ci mette invece nelle condizioni di dover ancora molto avere e di essere spesso poveri (non necessariamente in senso materiale), di non avere creato bene a sufficienza per lasciare di noi un segno abbastanza soddisfacente nel mondo. Nella morte allora scorgiamo l’incompiutezza del nostro stesso vivere e la temiamo perché ci vieta di completarci, di avere, di essere, di sentire tutto ciò che ancora sentiamo mancarci.
Un modo buono per affrontare l’idea della morte è quindi pensare a vivere bene, riconciliandosi con i propri desideri e con le proprie difficoltà; aprire finestre su prospettive ancora inedite del vivere, in modo da liberare parti di noi finora imprigionate ed escluse.
Questo processo di apertura alla vita pone spesso difficoltà, ma premia così intensamente che si può trovare la forza e il coraggio di affrontarlo. 
D’altro lato, se si sente che la morte è una prospettiva concreta e forse vicina, come si possono aprire nuove porte al vivere?
Come è possibile attivare la vitalità, far scorrere energie nel corpo e nella mente, pensando che tutto ciò si risolverà comunque in una sconfitta, nella morte?
Se ci si sente alla fine della propria vita è questo il momento di inaugurare qualcosa di nuovo?
Per poi doversene separare dolorosamente?
Può darsi che non sia questo il momento, ma possiamo comunque ragionare.
Se pensiamo che la nostra vita finirà presto abbiamo un sacco di cose da fare.
Prima regola: lasciare in ordine.
C’è chi si preoccupa, anche molti anni prima di morire, di avere un proprio posto al cimitero o di mettere da parte il denaro per il funerale.
Chi tiene nell’armadio un buon abito per l’occasione, chi scrive una lettera alla persona amata, agli amici, ai figli, da leggersi dopo la sua morte; chi chiude i conti del denaro. Chi dispone affinché ciò che lascerà in sospeso sia in condizioni tali da consentire a chi subentrerà di non fare troppa fatica a completare l’opera....
Ma non siamo tutti capaci di mettere ordine. Se non ne abbiamo già l’abitudine, non è detto sia possibile farlo ora. Prima regola: lasciare tutto in disordine.
Chi verrà dopo, farà come gli pare. Troverà il bene e il male della nostra vita sparsi in un allegro bazar. Pescherà le cose preziose come da una disordinata bancarella del mercatino delle pulci e si disferà, se vorrà, del resto.
In fin dei conti ciò che ci interessa ora è distoglierci dall’idea della morte ed è meglio non riordinare i cassetti, ma guardare altrove, aumentare il rumore di fondo della vita, distrarci. Non è come quando si fa gli struzzi per non vedere: è che si ha proprio il diritto di non guardare in viso troppo direttamente ciò a cui non ci si può opporre...
Comunque ci disponiamo a morire, una volta che abbiamo deciso come lasciare dietro di noi ciò che siamo, possiamo ora concentrarci sui nostri prossimi compiti vitali.
Già, perché anche se siamo sicuri di morire, nessuno ci potrà assicurare quando e il tempo è ora a nostra disposizione. Possiamo usarlo!
Seconda regola: il tempo serve a vivere Quando si ha tempo - cosa rara nella vita - si rischia, paradossalmente, di annoiarsi. Che si fa ora? Quanto tempo si ha per farlo? Dipende: se si tratta di imprese di una certa importanza bisogna avere molto tempo e si è tentati allora di non imbarcarsi su tale rotta, perché si è appunto stabilito che di tempo ce ne sarà poco: la morte è in agguato.
Ma non vale: i conti con la morte li abbiamo già fatti quando abbiamo deciso di lasciare tutto in ordine o in disordine! Allora il tempo lo possiamo vedere diversamente.
Il tempo è ora. Possiamo fare quel che ci pare, purché sia buono per noi, abbia un senso.
Siamo noi il parametro di riferimento: di cosa abbiamo bisogno? cosa ci può fare bene? Primo caso: abbiamo bisogno di ripararci e aspettare.
Si può vivere una enorme quantità di tempo nascosti, fermi, come storditi. In apparenza la vita è quella di tutti i giorni, ma un po’ per volta tende invece a impoverirsi, a perdere contenuti, a ingrigire.
Ci si chiude sempre più, ci si assenta dalla scena. Può anche capitare che si scarichi addosso alle persone a noi più vicine il nostro malessere, una sorta di insofferenza, di indisponibilità che ci fa mal tollerare tutto quanto avviene.
Vorremmo che gli altri ci capissero senza doverci spiegare, anche perché cosa dobbiamo spiegare? Se stiamo così, fermi, senza guardare al passato e senza pensare al futuro, forse riusciamo ad allontanare un po’ la mente dalla paura, forse riusciamo a rilassarci, a ritagliare un angolo di vita senza angosce, a trovare un po’ di pace.
Il vantaggio di questa posizione è quello di abbassare di molto il rumore della vita, di attutirlo e, con esso, di smorzare le emozioni e la paura.
Lo svantaggio è che questa posizione può confinarci in una sorta di piccolo angolo ben tutelato ma angusto, che mentre ci protegge, al tempo stesso ci impoverisce e può renderci tristi e perennemente in ansia, come se fossimo in trappola.
Se davvero ci accade di morire in questo modo, i nostri comportamenti nell’avvicinarci a quel momento comunicheranno alle persone vicine un ritiro ansioso dalla vita, spesso un astio e un malumore immotivati da ciò che ci sta accadendo intorno in quel momento, una sorta di sentimento di sconfitta verso la morte, che nonostante tutto è arrivata. Secondo caso: abbiamo bisogno di tornare a essere quelli di prima.
Quando si hanno le cose non se ne conosce il valore; quando si rischia di perderle si apprezzano di più - dice il detto popolare.
La mente è orientata all’indietro, al passato. Come se volessimo invertire il tempo, far ritornare il mondo a com’era prima, noi stessi a come eravamo, prima di avvertire questo senso di smarrimento e di perdita del futuro. Il nostro bisogno di ritornare a “prima” del punto di svolta, ci parla di un modo di difenderci dalla paura che è quello di negare il futuro, di non osare guardarlo, perché si è già deciso che lì, in quel futuro, non ci sarà più vita.
Qualcuno sente ora la mancanza del passato visto come buono, come luogo ove “si aveva”, “si era”. Qualcuno invece continua a rievocarlo per rimproverargli di essere la causa di questo presente così negativo, per trovare una colpa, una responsabilità. Il vantaggio di questa posizione è quello di consentirci di recuperare dal nostro passato un’immagine di noi liberi dalla malattia e dall’idea della morte, di rievocare persone e situazioni positive che possono arricchire il nostro presente, oppure anche di trovare colpevoli, al fine di sentirci meno oppressi da una situazione nella quale temiamo che la speranza ci stia abbandonando.
Lo svantaggio è dato dal fatto che tutti sappiamo che il passato non ritorna. Il rischio sembra allora quello di vivere una sorta di “non vita”, ancorati a ciò che non si è o al rimprovero di ciò che non potrà cambiare, perché è già avvenuto.
Se accade che moriamo vivendo queste emozioni, è possibile che la nostra morte comunichi il senso di una lancinante malinconia per quanto di buono abbiamo perduto o di disperazione e rancore per ciò che ci ha causato il male.
Terzo caso: abbiamo bisogno di rinascere. Visto che il tempo è ora, il futuro è già l’istante dopo! Cosa ci impedisce di godere di questo momento, di programmare qualcosa di buono per il pomeriggio, di pensare magari anche a domani? La paura della morte? Certo, ma se la morte arriverà, lo farà comunque, sia che io stia soffrendo sia che stia provando benessere.
Si può rinascere anche per poco, ammesso che sia veramente poco il nostro tempo da vivere... Inoltre in questa situazione possiamo invocare una sorta di “immunità diplomatica”, di diritto di extraterritorialità per avviare esperimenti che in passato forse non ci saremmo concessi.
Cosa abbiamo lasciato in sospeso? Decine, anzi migliaia di cose, forse. É il momento di farne qualcuna, o di inventarne di nuove, mai pensate prima.
Possiamo prenderci cura di noi, ambire agli affetti, prenderci qualcosa di buono.
Cosa c’è di male? Perché in passato abbiamo potuto pensare che fosse male farlo?
Possiamo anche fare, se ci va, qualcosa per gli altri, ma solo perché ci dà benessere, piacere, perché dà senso alla vita, la riempie di calore. Se avviamo un progetto, possiamo dedicarci a lui con tutte le nostre energie.
Il progetto siamo noi e attraverso questo modo di sentire forse un po’ “egoista” le cose accadono veramente e i loro riflessi positivi fanno bene, alla fine, anche agli altri!
La paura della morte? C’è, è lì, ben presente, ma c’è anche la vita, l’unico rimedio alla morte sinora inventato. Lo svantaggio di questa posizione è quello di esporre spesso a conflitti con le persone più vicine, perché può accadere che “non ci riconoscano”: facciamo cose diverse, usciamo dalla traccia che ci ha guidati sinora. Pazienza!
Il vantaggio di questa posizione è quello di interpretare l’idea del morire come ciò che veramente è: un gesto vitale, una parte integrante della vita nella quale non è detto che si debba smettere di crescere e cambiare.
Se accade di morire veramente vivendo sentimenti di questa natura, è possibile che lo si faccia con serenità e che sino all’ultimo momento la nostra vita sia contornata da affetti, perché non avremo bisogno di esprimere rancore (stiamo prendendo ancora cose buone dal vivere) né di essere malinconici (la perdita del passato non ci ha privati del piacere del presente).
Se accade di poter morire, diamoci da fare, perché la strada è lunga.

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Si ringrazia l’Archivio Sisto Legnani, Largo Treves, 2 - 20121 Milano.
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