PROGETTO CHIRONE
La prima indagine in Italia sui medici che vivono o hanno vissuto l'esperienza del cancro.

(Fonte Franco Angeli Editore- Milano)

1.1 Perché ad Attivecomeprima

Attivecomeprima, proprio per la storia e il tipo di attività che la caratterizza, è il contenitore naturale più adatto per la realizzazione di una simile iniziativa.

Prima di tutto perché un medico che si ammala di cancro ha le stesse (se non maggiori) paure dell’ignoto e lo stesso senso di smarrimento di qualsiasi altra persona che si trova nella stessa condizione, e Attivecomeprima esiste per tendere una mano a chiunque riconosce di averne bisogno.

Secondo, perché l’Associazione si è sempre costituita come luogo nel quale i medici e i pazienti si possono liberamente guardare negli occhi (“dottore si spogli…”, così si chiama una delle nostre attività di gruppo), e uno degli aspetti innovativi e forse più fecondi di questo progetto è quello di esplorare e valorizzare ciò che emerge dall’incontro tra questi due ruoli proprio nel momento in cui interagiscono nella stessa persona.

È infatti qui, nella diretta esperienza dell’“essere malato” e del sentirsi al cospetto del rischio di poter morire, che emerge – in modo spesso dirompente – il conflitto fra i bisogni e le sensibilità più profonde della sua “umanità” e l’immagine che il medico tende ad avere di se stesso e del suo ruolo, così come è indotta da un percorso formativo che enfatizza costantemente gli aspetti scientifico-tecnici della sua professione fino a consacrarli come un inderogabile imperativo etico.

1.2 Perché “Progetto Chirone”

     E qui stanno le ragioni della scelta della denominazione “Progetto Chirone”. Si fa infatti esplicito riferimento al mito greco del centauro Chirone, il più saggio e sapiente fra i centauri, celebre medico e chirurgo.

Nato da stirpe divina e quindi immortale, fu maestro di Asclepio, il dio della medicina. Accadde che Chirone fu ferito accidentalmente da una freccia avvelenata scagliata da Eracle (Ercole per i Latini), il liberatore di Prometeo. Si narra infatti che Prometeo, “cugino” di Zeus, offerse all’uomo in dono il fuoco e l’oblio dell’ora della propria morte. Come interpreta Platone, il fuoco rappresenta il sapere tecnico, ma questo sarebbe servito a ben poca cosa se all’uomo non fosse stata sottratta la facoltà di conoscere in anticipo la propria morte. L’oblio della morte, infatti, conferisce all’uomo l’illusione di essere immortale e, nonostante la sua imperfezione, la possibilità di avvicinarsi agli dei. Per questo Zeus punì Prometeo, incatenandolo alla cima del Caucaso e condannandolo al supplizio di un’aquila che giorno per giorno gli divorava il fegato. Liberato da Eracle, che uccise l’aquila, Prometeo fu condannato comunque da Zeus a portare un anello fatto col ferro delle sue catene e con un pezzo di roccia del Caucaso, che lo condannava a vivere nella insopportabile sofferenza del legame con la sua condizione di prigioniero. Fu allora che entrò in scena Chirone: questi, ferito dalla freccia avvelenata col veleno dell’Idra, si era rinchiuso nella sua caverna soffrendo tremendamente a causa di quella ferita inguaribile. Essendo immortale, infatti, non poteva né guarire né morire. La via d’uscita da questa eterna prigione gli fu offerta da Prometeo che, nato mortale, offrì a Chirone la possibilità di porre fine alla sua sofferenza in cambio della sua immortalità. Chirone accettò di poter morire e finalmente trovò così la pace.

Questo mito riporta all’immagine del medico come guaritore ferito. Come si legge nell’introduzione a un bel saggio di Gadamer (1993):

    Qui, accanto all’aspetto demiurgico del sapere e dell’arte, emerge il dolore contenuto nella comune matrice umana, corporea e mortale, che unisce, al di là dei ruoli, medico e paziente. Per poter curare, il medico non deve mai pensarsi separato dal suo aspetto di paziente. La repressione di questo polo della coppia porterebbe il medico a una soglia pericolosa caratterizzata dalla convinzione di non avere nulla a che fare con la malattia. Analogamente, quando una persona si ammala, è importante che venga alla luce la figura del paziente/medico, cioè il fattore di guarigione interno al paziente, la cui azione curativa è uguale a quella del medico che compare sulla scena esterna. Un medico “senza ferita” non può attivare il fattore di guarigione nel paziente e la situazione che si crea è tristemente nota: “da un lato sta il medico sano e forte, dall’altro il paziente, malato e debole”.

     E questa immagine, un po’ onnipotente e distorta del suo ruolo professionale, il medico fa una  tremenda fatica a scrollarsela di dosso. E questo dato è fortemente presente anche nell’analisi dei questionari che abbiamo potuto valutare.

Tanto più radicata è questa immagine di sé e del suo ruolo, appresa durante il suo percorso formativo, tanto più profondo è il conflitto generato dall’esperienza del cancro, dall’essersi trovato improvvisamente gettato – come si dice – dall’altra parte della barricata. Dall’aver provato cosa significa essere considerato “un caso clinico”, una malattia e non un malato.

Ciò che però è importante riconoscere è che questa immagine del medico superuomo, è l’immagine che di esso hanno comunque, loro malgrado, anche gli stessi pazienti; è l’immagine del medico prodotta dall’attuale cultura della salute e della malattia; due categorie fra loro in antitesi e non due aspetti in rapporto dialettico nel produrre giorno per giorno il percorso di vita di ogni essere umano, medico compreso.

“Dottore, si conservi così perché se si ammala non è più un dottore!”, mi ha detto scherzando un paziente qualche giorno fa. Scherzava, però l’ha detto.

E non a caso, infatti, le critiche alla chiusura della medicina in una ortodossia paludata, ai medici e alla loro incapacità d’ascolto e quant’altro, negli ultimi decenni sono sempre state particolarmente feroci.

Ma – si potrebbe pensare – se questo problema affonda le sue radici nel Mito, allora vuol dire che è sempre esistito, che non è un prodotto esclusivo della nostra cultura più recente.

Io penso che il medico, nell’immaginario collettivo, e almeno nelle situazioni che minano più seriamente la nostra salute, sia stato visto inevitabilmente un po’ come il mediatore tra il mistero della vita e il mistero della morte. Non tanto perché lui si sia proposto consapevolmente in questo modo – anche se in alcune situazioni può essere accaduto – ma perché ognuno di noi, quando sente che la morte potrebbe essere vicino, ha bisogno di poter credere che esiste qualcosa o qualcuno che, al di là delle conoscenze tecnico-scientifiche, possa produrre per lui qualcosa di speciale per salvargli la vita. Credo che, più o meno consapevolmente, questo sia un bisogno profondo, una sorta di ineliminabile riflesso di sopravvivenza intimamente connesso con ciò che Franco Fornari (1985) ha chiamato “capacità di speranza”.

Oggi però il modo di noi tutti di sentire la vita e il nostro stesso ruolo nel mondo, sta cambiando non solo profondamente ma anche a velocità vertiginosa; e così pure, di conseguenza, i rapporti gerarchici fra i diversi ruoli sociali. L’accelerazione di questi cambiamenti ha già abbondantemente superato la nostra capacità di metabolizzarli, a livello individuale e collettivo (Schiavone, 2007). Ridisegnare i ruoli e ridefinirne i rapporti è un lavoro immane che richiede capacità progettuale, tempo (quel tempo contratto che ci sta fuggendo via) e la piena consapevolezza di essere coinvolti in un processo del genere, affascinante e inarrestabile, ma anche travolgente - se non riusciamo a governarlo – perché abbiamo già abbondantemente superato la soglia di reversibilità, ammesso che sia mai esistita.

La differenza essenziale rispetto ai secoli passati è il ruolo che oggi ha in tutto ciò lo sviluppo scientifico-tecnologico e i suoi rapporti con la vita quotidiana, con la ricerca scientifica, e infine con la nostra salute e la nostra malattia. Una volta erano le conoscenze scientifiche a produrre tecnologia; oggi il processo si è in gran parte rovesciato, sono le nuove possibilità tecniche a indurre e consentire la produzione di nuove conoscenze (come è stato ed è tuttora, ad esempio, in cosmologia grazie al telescopio spaziale Hubble o in neurofisiologia grazie alle sofisticate tecniche di RMN e così via). E mai come in passato, nell’ultimo secolo il sapere scientifico-tecnologico (oggi appunto non sono più dissociabili) ha scardinato le coordinate del rapporto medico-paziente.

Va peraltro riconosciuto che nei confronti del medico di medicina generale, l’indice di gradimento da parte dei pazienti è sempre stato molto elevato; probabilmente perché il suo lavoro riguarda quella medicina del quotidiano che rappresenta di fatto un riferimento fondamentale per i molti disagi, malesseri e sofferenze che affondano le loro radici nella vita intima della persona e nelle sue relazioni sociali.

Ciò nonostante, nell’immaginario collettivo quando si pensa alla Medicina e si esprimono le critiche più aspre nei suoi confronti, è all’immagine “specialistica” di essa che ci si riferisce. Perché lo “specializzarsi” è comunque vissuto come un valore e lo specialista, occupa, nella nostra considerazione dei ruoli medici, un posto più elevato.

È infatti a questo orientamento “specialistico” del sapere medico nel suo complesso che sono rivolte le critiche più feroci; riguardano in gran parte la disumanizzazione prodotta nel rapporto tra paziente e medico da un certo uso della tecnologia. Ma non è quest’ultima che l’uomo sta rifiutando, anzi. È che, nel vissuto comunemente espresso nelle ormai numerosissime indagini di medicina sociale, il medico è visto come un professionista che troppo spesso non usa il sapere scientifico-tecnologico ma si fa da questo usare. Un professionista che ha tradito la sua arte per la scienza. E ciò è tutt’altro che privo di conseguenze quando il medico si ammala e deve attraversare il guado. E qui una riflessione sul senso del suo lavoro si impone.

 2. Organizzazione della ricerca

 di Manuela Provantini

 Per la realizzazione del Progetto Chirone, nel 2005 si è costituito un gruppo interdisciplinare di ricerca, al quale hanno partecipato diversi specialisti: due oncologi medici, un radiologo, un epidemiologo, due chirurghi, un medico di medicina generale, due psicologi e uno statistico, due dei quali colpiti dal cancro.

All’inizio dei lavori, il gruppo si è riunito più volte per studiare la formulazione di un questionario da somministrare a medici ammalati.

Durante questi incontri si sono identificate le diverse aree da indagare, soprattutto sulla base dei racconti esperienziali dei medici che hanno dovuto affrontare la malattia in prima persona.

Successivamente, si è ragionato sull’impostazione delle domande e relative risposte: a scelta multipla oppure, per altri item, una scala di gradazione (es. poco, abbastanza, molto).

Il questionario definitivo è risultato suddivisibile nelle seguenti aree:

1         dati socio-demografici (rispettando l’anonimato),

2         scoperta della malattia (tipo e conferma della diagnosi),

3         screening effettuati (oncologici o di altra tipologia),

4         scelta del medico e del programma terapeutico,

5         durata dell’assenza dal lavoro,

6         prognosi (se ne è a conoscenza e cosa ne pensa),

7         la vita dopo la malattia (se è cambiata, quanto e in che modo),

8         rapporto medico-paziente (se è cambiato, quanto e in che modo).

Nella fase successiva, sono stati contattati 205 primari oncologi italiani (elenco fornito dall’AIOM), tramite comunicazione cartacea. In questa si è comunicato lo scopo del progetto, chiedendo loro di partecipare alla realizzazione dello stesso proponendo, eventualmente ad altri colleghi che hanno avuto tale esperienza, la compilazione del questionario.

Si è provveduto, poi, a contattare telefonicamente i primari e 600 dei restanti medici associati all’AIOM, per verificare l’interesse al Progetto e la loro possibilità di collaborazione.

Con alcuni degli interessati si sono avuti ripetuti contatti sia telefonici che telematici. In seguito sono stati inviati i questionari, nel numero di copie da loro richieste e, secondo le loro esigenze, tramite posta prioritaria o posta elettronica.

Il questionario è stato distribuito anche in occasione del “VIII Congresso Nazionale di Oncologia Medica”, organizzato dall’AIOM e tenutosi a Milano dal 18 al 21 Novembre 2006, durante il quale 112 medici di varie specializzazioni e città, ne hanno richieste diverse copie.

Si è deciso, inoltre, di diffondere il Progetto Chirone anche in altre occasioni:

1  1 Giugno 2006 - F.A.V.O. Celebrazione della prima Giornata Nazionale del Malato Oncologico;

2   23 Settembre 2006 – XIII Seminario Nazionale A.M.M.I. - Villa D’Este, Cernobbio (CO);

3   14 Ottobre 2006 – Associazione Vela “Conferenza Nazionale del Volontariato in Oncologia” – Ovada (AL).

I medici hanno anche potuto conoscere il Progetto tramite i siti di Attivecomeprima, dell’AIOM, dell’ENPAM e della FNOMCeO e richiedere il questionario all’Associazione.

Dopo la compilazione, i medici lo hanno spedito alla sede di Attivecomeprima, in forma anonima; alcuni hanno preferito inserire i loro dati e scrivere qualche commento riguardo alla ricerca.

A raccolta avvenuta, i dati sono stati inseriti all’interno di un database appositamente strutturato per agevolarne la successiva elaborazione.

La raccolta è stata completata ad aprile 2007 con un ritorno di 103 questionari e i dati sono stati elaborati statisticamente.

Nella fase conclusiva, i partecipanti si sono ritrovati in diverse altre occasioni per riflettere sui risultati ottenuti e per trarne delle conclusioni significative.

 Gruppo di ricerca :

Fabio Baticci (chirurgo – Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano), Franco Berrino (epidemiologo – Istituto dei Tumori di Milano), Salvo Catania (chirurgo oncologo – responsabile U.O. Senologia Chirurgica Policlinico Multimedica e Istituto S.Ambrogio di Milano), Francesco Della Beffa (statistico – Attivecomeprima Onlus), Stefano Gastaldi (psicologo, psicoterapeuta – Attivecomeprima Onlus), Mariagrazia Lazzari (radiologa – Ospedale San Gerardo di Monza), Manuela Provantini (psicologa – Attivecomeprima Onlus), Alberto Ricciuti (medico di medicina generale– responsabile dell’attività di supporto di medicina generale durante la chemioterapia – Attivecomeprima Onlus), Claudio Verusio (oncologo medico – primario Oncologia Medica Ospedale di Saronno), Silvia Villa (oncologo medico – dirigente U.O. Oncologia Ospedale di Lecco).

 Le persone appartenenti a questo gruppo sono co-autrici dello studio, i cui risultati sono riportati in questo libro.

 3. Nota metodologica

di Francesco Della Beffa

 3.1 Caratteristiche e scopo dello studio

   Il progetto Chirone è sostanzialmente uno studio trasversale descrittivo sui medici malati di cancro, i cui obiettivi però non vogliono – né potrebbero – collocarsi nell’ambito clinico o epidemiologico, ma piuttosto nell’ambito psico-sociologico. Coerentemente con questa collocazione, gli strumenti e le metodologie adottati sono piuttosto quelli della ricerca psico-sociale che quelli dell’epidemiologia o della statistica medica. Gli elementi su cui si basa l’indagine non sono cioè misure oggettive, campioni randomizzati e controlli, bensì valutazioni soggettive e campioni in parte anche autoselezionati, dai quali si possono comunque trarre suggerimenti, indicazioni e alcune conclusioni significative.

L’oggetto dell’indagine, come è stato detto, è il rapporto che il medico con una diagnosi di cancro ha con la malattia, i cambiamenti che essa induce nella sua vita e tra questi, di particolare interesse, gli eventuali cambiamenti nel rapporto con la professione e con i pazienti. Si tratta perlopiù di valutazioni personali, la cui rilevazione può esser fatta attraverso le dichiarazioni spontanee dei medici, raccolte mediante un questionario.

Si noti che il progetto non ipotizza a priori alcuna specificità del medico in quanto tale nel rapporto con la malattia, se non per quanto attiene al coinvolgimento nella definizione della diagnosi e della terapia e, ovviamente, a una consapevolezza clinica e prognostica maggiore rispetto ai non medici. La specificità che invece costituisce la motivazione principale dello studio è che il medico è chiamato ad affrontare professionalmente per e con i suoi pazienti lo stesso evento – la malattia – che deve affrontare personalmente, e che questo modifichi l’esperienza ed eventualmente anche la pratica professionale.

In questo senso assumono un ruolo cruciale la soggettività del medico e la sua percezione sul mutamento dei propri atteggiamenti, mentre l’individuazione di un gruppo di controllo rispetto al quale valutare le risposte ottenute sembra alquanto improbabile e anche meno importante.

Dove però, come vedremo, sono disponibili informazioni oggettive, diventano possibili e potenzialmente interessanti gli approfondimenti sui possibili fattori che, in modo generalizzato o selettivamente, influenzano i cambiamenti.

 3.2 I dati

La raccolta dei dati è stata effettuata mediante un questionario auto compilato. I contenuti del questionario e la loro formulazione sono stati definiti da un gruppo di lavoro multidisciplinare, come descritto nel capitolo “Organizzazione della ricerca”. Prima di essere distribuito il questionario è stato somministrato ad alcuni medici non appartenenti al gruppo di lavoro e messo a punto sulla scorta delle loro osservazioni.

Tutte le domande sono state formulate come domande chiuse, tranne la specializzazione del medico, lo stadio e il tipo istologico del tumore.

I dati del questionario sono stati integrati a posteriori dalla stima della gravità della malattia, valutata da una commissione di esperti sulla base del tumore, dello stadio e del tipo istologico.

 3.3 Popolazione e campione

 La popolazione di riferimento dello studio è quella dei medici malati di cancro, intendendosi con questo i medici con una precedente diagnosi di cancro. L’indagine è limitata al territorio nazionale, senza alcuna esclusione rispetto a età, genere, tipo di tumore, anno della diagnosi o altro.

La prevalenza del cancro nei medici italiani è stata stimata incrociando i dati nazionali per genere, classe di età e area geografica (fonte: “Tumori”, Società Italiana di Cancerologia e AIOM, vol. 85, num. 5, 09-10/1999), aggiornati con dati 2005 (fonte: progetto “I tumori in Italia”, www.tumori.net, stime e proiezioni da dati ISTAT ed EUROCARE 3 a cura del Reparto Epidemiologia dei Tumori del Centro Nazionale di Epidemiologia Sorveglianza e Promozione della Salute dell’Istituto Superiore di Sanità), con il numero di medici italiani suddivisi nelle stesse classi (fonte: ENPAM, numero di iscritti per fasce di età, sesso e residenza al 31/12/2005). La stima fornisce un numero di medici malati di cancro in Italia poco superiore a 10.000, dei quali il 54% di età non superiore a 60 anni e il 74% maschi.

Le modalità di campionamento sono descritte dettagliatamente nel capitolo “Organizzazione della ricerca”. In sostanza, contattando nel modo più sistematico possibile gli oncologi italiani, si è cercato di estendere la base degli intervistati, generalizzando al massimo i criteri di inclusione, con l’obiettivo di ridurre le distorsioni dovute ai canali di rilevazione. Resta peraltro evidente che l’autoselezione degli oncologi curanti prima e dei medici malati dopo costituisce essa stessa una distorsione del campione, la quale opera certamente nel senso di selezionare i soggetti più sensibili alla tematica del progetto. Su come poi questa maggiore sensibilità si manifesti nelle risposte e negli atteggiamenti, se cioè ad esempio i medici partecipanti siano più o meno disponibili degli altri nei confronti dei pazienti, non sembra però scontato. Concludiamo che una distorsione sistematica nel campione esiste senz’altro, ma che il suo effetto sugli atteggiamenti e sui cambiamenti dichiarati non ha un verso certo e prevedibile, e può quindi essere considerato poco o punto influente, almeno al livello del campione e degli obiettivi attuali.

La raccolta dei questionari ha avuto luogo tra settembre 2006 e aprile 2007. Sono stati raccolti complessivamente 103 questionari. Questa numerosità campionaria consente di stimare le percentuali della popolazione con un errore massimo di ±10%, con una affidabilità del 95%.

Le principali caratteristiche del campione sono riassunte nei grafici di fig. 1. Rispetto alla popolazione di riferimento, nel campione sono sovra-rappresentati i medici fino a 60 anni (67%) e le donne (41%). La distribuzione geografica mostra anche un sovracampionamento dell’area Piemonte-Aosta-Ligura-Lombardia, quasi certamente dovuto alla maggior disponibilità di contatti diretti dell’Associazione. I principali tumori rilevati sono: colon retto (32%), prostata (17%) e polmone (13%) per i maschi, mammella (79%) per le femmine.

 6.     L’esperienza di una radiologa che ha vissuto la malattia: cosa vuol dire fare senologia prima e dopo il tumore al seno

 di Mariagrazia Lazzari

     Avevo trascorso la mia esistenza tra le immagini, cercando una soluzione, un’interpretazione in un gioco di grigi e di trasparenze.

Attraverso il buio illuminato di una parete luminosa, studiavo le forme, i contorni, le dimensioni confrontandole con tutte le possibili varianti dell’immagine ideale, cercando di cogliere tutti i significati di uno scostamento rispetto a ciò che è considerato “normale”.

Quella realtà in bianco e nero rappresentava ciò che sta dentro, codificava e controllava la giusta posizione ed il funzionamento dei componenti, così come poteva testimoniare il cambiamento, la devianza, la malattia.

Lo spazio tra l’interno e l’esterno si strutturava in chiari e scuri che mano a mano diventavano intelligibili, e potevano essere testimoni di una alterazione, di un dolore, di un percorso pieno di difficoltà che avvertivo così intensamente da identificarmi somatizzandole, integrandole sotto forma di paure. I primi tempi della mia professione, imparando ad eseguire i tubi digerenti “soffrivo” di mal di stomaco e di acidità, così come di intenso meteorismo quando facevo i miei primi “clismi opachi”.

Quindi ci fu il tempo in cui mi sentivo i sintomi del carcinoma ovarico, malattia che frequentemente potevo osservare essendo presente nel mio ospedale una avanzata chirurgia specialistica ed essendo una patologia che colpisce le giovani donne. Ci fu il periodo del timore dei linfomi, del melanoma, di varie patologie neurologiche attraverso parestesie e formicolii, disturbi respiratori ed altri ancora…così per qualche anno. Poi credo che a un certo punto mi accorsi che stavo bene, molto bene, erano gli altri ad ammalarsi, solo gli altri e le mie paure sfumarono progressivamente:ero diventata sostanzialmente invulnerabile.

La mia attività divenne più specialistica e focalizzai la mia attenzione verso quel tumore che colpisce quella meravigliosa parte del femminile.

Una discreta parte della mia attività divenne identificare gli addensamenti, le asimmetrie, le distorsioni, le micro calcificazioni raggruppate, le formazioni ipoecogene con sbarramento acustico posteriore, tutti i segnali per smascherare quell’intruso perché potesse essere estirpato in tempo, per consentire a quante più pazienti possibile di avere ancora molti anni da vivere. Io che avevo scelto la strada delle immagini perché temevo il contatto diretto con il dolore, imparavo ad ascoltare le donne che venivano a fare la mammografia portandosi dietro le paure di tutta una vita e facendole esplodere in pochi attimi. Così attraverso una amorosa ricerca nelle loro storie e nelle loro immagini, cercavo, nel mio piccolo, di liberarle dalla paura di vivere.

Poi ci fu un periodo oscuro della mia esistenza, nero come la pece, nel quale nulla mi pareva risplendere tranne la mia bambina e questo contatto con le pazienti, tutto sembrava inesorabilmente sommerso nel mare della mia solitudine. Quando il buio incominciava a rischiararsi un giorno, sotto la doccia, vidi una cosa incredibile: la retrazione del capezzolo. Avevo fatto una mammografia un anno prima sovrapponibile alle precedenti, è vero c’era un po’ di asimmetria ma c’era sempre stata a causa di 2 cisti affiancate, proprio dietro al capezzolo: erano state identificate dopo la prima mammografia. Non avevo ripetuto l’ecografia appunto perché il quadro mammografico era stabile. Non avevo alcuna famigliarità per tumore ed ero ancora giovane. Non è possibile, è assurdo, pensai, così come il giorno successivo mi sembrò paradossale ciò che vidi mentre mi facevo l’ecografia.

Era capitato “proprio a me” come mi dicevano le pazienti, ma quel “proprio a me” mi sembrava più appropriato nel mio caso. Come era possibile, io cercavo le micro calcificazioni raggruppate in pochi millimetri e là dietro al capezzolo, in quell’area opaca dove c’erano le 2 cisti ora si trovava una neoplasia di più di 2 cm di diametro. La sorte si era davvero presa gioco di me. Fu un’esplosione. Mi sentivo soverchiata dai sensi di colpa nei miei stessi confronti per non essermi presa cura proprio di me  e nei confronti della mia bambina che non avrei potuto accompagnare fino all’età adulta. Non avrei più pensato a progetti e cambiamenti a lungo termine.

Mi veniva presentato il conto in anticipo e io non avevo preparato i soldi per pagarlo. Ci fu l’intervento, il seno era piccolo, il tumore centrale, fu una mastectomia. Inoltre 5 linfonodi della prima stazione erano interessati. Era interminabile la chemioterapia in quell’estate, la più calda di cui si avesse memoria, resa ancor più torrida della parrucca e dalle vampate di calore da menopausa farmacologica. Tuttavia il mio corpo, sul quale, con l’aiuto di bravissimi chirurghi plastici, si stava strutturando la ricostruzione, reagiva bene ed anche e soprattutto il mio spirito reagiva bene. Ogni giorno mi sentivo più forte, qualche piccolo cedimento ogni tanto, la nausea, la stomatite, i disturbi digestivi e quant’altro ma ero viva, davvero viva e consapevole di esserlo.

Cominciai a pensare: non so quanto vivrò ma nessuno lo sa, siamo tutti “a termine”, quello che so è che ora sto vivendo, ho questa meravigliosa opportunità di poter vivere la mia vita, farò in modo con tutte le mie forze di farla durare più a lungo possibile e cercherò in ogni momento di renderla piena di amore per me stessa e quando mi sarò colmata di questo amore potrò anche riversarlo sugli altri, solo allora saprò capire ascoltando.

Non potevo più dare spazio al senso di colpa: non mi ero presa cura proprio di me stessa, è vero, ma in quel momento buio non potevo fare altro, mi ero ritrovata dentro di me proprio quell’intruso contro cui combattevo fuori di me. Solo ora capivo il senso e la necessità di occuparsi, di osservare amorevolmente. Da quel giorno ho capito la vera necessità di  eseguire con attenzione e senza assurdi tabù l’auto-palpazione, che può portare alla conoscenza ed alla accettazione del proprio corpo e di tutto quello che contiene, quel gesto che insegnavo alle altre ma che io non facevo!

Ho capito che questa incredibile esperienza poteva essere un insegnamento, una valenza aggiuntiva: ora potevo capire col cuore e non solo con la mente cosa significa prevenzione e potevo trasmettere alle donne che come me si ammalavano, come e perché si può guarire da questo male.

Così quando tornai a lavorare decisi che volevo continuare ad occuparmi di senologia, che è diventata anzi la porzione più grande della mia attività lavorativa. Era un po’ anche una sfida, la sensazione di vincere ogni giorno una battaglia, una lotta corpo a corpo con la paura di morire, esprimendo anche in questo modo la necessità di vivere. Soprattutto però è stato e continua ad essere un nuovo, speciale modo di stare di fronte alla paziente che mi consente, attraverso la dolcezza e la fermezza che mi sono scoperta e riconosciuta, di dare fiducia e speranza proprio mentre eseguo una biopsia o quando devo comunicare la presenza della brutta malattia.

È un viaggio verso la consapevolezza che posso esprimere con la serenità che ora mi sento e che penso di potere dare. Certo ogni tanto ancora oggi accuso qualche cedimento, soprattutto quando incontro le recidive di malattia, ma la conoscenza che ho acquisita di me stessa, di ciò che faccio e di ciò che voglio trasmettere vanno oltre questi momentanei cedimenti.

Il perché “proprio a me” ora pare avere un significato: mi è sembrato di vivere una delle esperienze più dolorose ma questa si è potuta trasformare in un dono portandomi l’amore ed insegnandomi l’ascolto di me stessa e della vita che sto vivendo.

È’ davvero un grande regalo il profondo significato che possiamo dare ed anche insegnare attraverso l’esperienza dolorosa e la malattia: possiamo addirittura fare emergere la parte più viva della nostra esistenza.

 1. Conclusioni

 di Alberto Ricciuti e Stefano Gastaldi

Le vicende che si svolgono intorno all’esperienza del cancro, quando è un medico ad ammalarsi, sono influenzate da due grandi questioni, intrecciate tra loro.

Da un lato vi è il naturale essere e reagire del medico-persona davanti a un trauma, un dolore profondo, una paura che riguarda la sua salute e la sua sopravvivenza, dall’altro vi è la cultura del ruolo medico, determinata dalla cultura sociale, scientifica e professionale della Medicina in Occidente.

L’ipotesi che ci ha guidati nella ricerca e che ci ha fatto raccogliere i contributi presenti in questo libro è quella che le esigenze della persona siano antecedenti e prioritarie rispetto alle esigenze di ruolo, anche se, essendo la professione medica ad alto tasso motivazionale, le persone che la scelgono possono usare il ruolo per esprimere parti di sé molto importanti e vitali.

Proprio nel momento in cui il medico si ammala di ciò che cura, egli rischia di entrare in crisi “dappertutto” perché i sentimenti di precarietà legati alle insidie della malattia cancro non possono spesso essere curati dalle conoscenze e dalle competenze del ruolo (che, anzi, gli suggerisce il peggio). La crisi della persona e la crisi del ruolo professionale tendono a unirsi, sovrapporsi e coincidere per molti aspetti.

A nostro parere, i dati raccolti indicano anche che nel medico è comunque in corso un importante processo di mutamento dell’immagine che egli ha del suo ruolo.

È un mutamento sofferto, che rivela tutti gli aspetti conflittuali di un cambiamento profondo dell’immagine di sé come professionista. Il ritratto del medico che emergeva dalle indagini e dagli studi di medicina sociale degli ultimi decenni, dipinto come professionista che difende il potere di un ruolo paludato, che parla un linguaggio tecnico poco o nulla comprensibile ai malati, che non ascolta il paziente e gli impone le sue prescrizioni in modo paternalistico, chiuso nella sua torre d’avorio, insomma, sembra che si stia lentamente sgretolando.

E questo accade sulla spinta dei profondi mutamenti sociali che ci coinvolgono tutti umanamente e professionalmente. Lo sviluppo scientifico-tecnologico - e soprattutto la velocità alla quale sta avvenendo - come abbiamo già rilevato, è sicuramente il motore principale di questi cambiamenti, tanto che la nostra stessa concezione del tempo si sta stravolgendo al punto da farci perdere il senso dello spessore storico degli eventi e con esso perfino la capacità di vedere un futuro. Le possibilità tecniche di gestione a lungo termine di patologie invalidanti, le tecniche di fecondazione assistita e di manipolazione genetica, l’aumento esponenziale dei mezzi di comunicazione e di elaborazione dei dati disponibili, la “vita in diretta” che ci stiamo abituando a vivere, stanno disarticolando tutto il sistema di valori sui quali si sono retti per secoli i sistemi sociali e i rapporti di ruolo nelle varie attività umane e professionali, medicina compresa. Grazie a queste possibilità gli stessi ‘pazienti’ possono accedere alla velocità di un click del mouse a una quantità sterminata di informazioni sulla loro patologia, sulle modalità di diagnosi e sulle possibilità di cura; e tutto questo, incluso l’aumento delle possibilità di vita in molte patologie gravi come il cancro, li ha resi sempre più ‘esperti’ e sempre più in grado di erodere lentamente lo spazio sacrale che per secoli ha circondato la figura del medico che – teniamolo presente – prima di essere tale, è anch’egli un uomo del suo tempo. Un uomo che sta vivendo in prima persona lo stravolgimento dei codici di ruolo che costituivano da secoli i suoi sicuri punti di riferimento e di difesa; e, quando si ammala di cancro, tutto questo assume una particolare evidenza.

È importante riconoscere che questo complesso di dinamiche di cambiamento della coscienza individuale, collettiva e professionale, sembra aver superato da tempo il suo punto di reversibilità e sembra aver assunto – in un’ottica sistemica - le caratteristiche di un fenomeno emergente di autorganizzazione, che possiamo e dobbiamo riuscire a governare – per non esserne travolti - prima di tutto divenendone più consapevoli.

Davanti all’incertezza grave sul futuro (come quella dovuta a una malattia severa e insidiosa come il cancro) gli esseri umani possono reagire creativamente oppure rinchiudersi in una difesa talvolta triste, ossessiva e poco vitale.

I medici fanno altrettanto. Una parte di loro reagisce creativamente, un’altra si blocca e sviluppa una sorta di ritiro parziale dalla vita.

Tutto ciò influisce sul rapporto col paziente, che tende a essere più aperto e umano nel primo caso, molto meno nel secondo.

Ciò che emerge nel travaglio dei traumi è però, molto spesso, una verità sepolta. In questo caso, la verità che i medici esprimono è quanto possa essere importante, dopo la malattia, investire nelle relazioni e negli affetti, sia come persone sia come medici.

Se dopo la malattia è dunque possibile, e anche bello, dare più spazio alla propria umanità nella vita e nella professione, perché non pensare che questa è una ricetta naturale per vivere e lavorare, anche senza bisogno di ammalarsi?

Questa ricerca ci suggerisce che il cambiamento delle coordinate di pensiero di un “far medicina” non solo più evoluto sul versante della competenza tecnico-scientifica, ma anche più maturo e più libero sul versante dell’umanità del medico, nelle più intime pieghe del rapporto medico-paziente è già iniziato.

Non ci resta quindi che raccogliere con spirito di gratitudine l’indicazione che sembra giungere dall’interno dello stesso mondo della medicina e continuare a lavorare per potenziare l’alleanza naturale tra malato e medico e riorganizzare intorno alla persona i percorsi di cura nella nostra Sanità.

Il fatto, per il medico, di mettere in gioco nella relazione di cura la sua umanità di “guaritore ferito” e, per il paziente, di riconoscerla come potente risorsa per essere maggiormente compreso e ancora meglio curato, non diminuisce la capacità umana e professionale del medico di curare il suo paziente ma la potenzia enormemente. Perché dobbiamo sempre ricordare che – rubando le parole a Umberto Galimberti – non si muore perché ci si ammala, ma ci si ammala perché si muore.