PROGETTO CHIRONE
La prima indagine in Italia sui medici che vivono o hanno vissuto l'esperienza del cancro.
(Fonte Franco Angeli Editore- Milano)
1.1 Perché ad Attivecomeprima
Attivecomeprima,
proprio per la storia e il tipo di attività che la
caratterizza, è il contenitore naturale più adatto per
la realizzazione di una simile iniziativa.
Prima di tutto perché un
medico che si ammala di cancro ha le stesse (se non
maggiori) paure dell’ignoto e lo stesso senso di
smarrimento di qualsiasi altra persona che si trova
nella stessa condizione, e Attivecomeprima esiste
per tendere una mano a chiunque riconosce di averne
bisogno.
Secondo, perché
l’Associazione si è sempre costituita come luogo nel
quale i medici e i pazienti si possono liberamente
guardare negli occhi (“dottore si spogli…”, così si
chiama una delle nostre attività di gruppo), e uno degli
aspetti innovativi e forse più fecondi di questo
progetto è quello di esplorare e valorizzare ciò che
emerge dall’incontro tra questi due ruoli proprio nel
momento in cui interagiscono nella stessa persona.
È infatti qui, nella
diretta esperienza dell’“essere malato” e del sentirsi
al cospetto del rischio di poter morire, che emerge – in
modo spesso dirompente – il conflitto fra i bisogni e le
sensibilità più profonde della sua “umanità” e
l’immagine che il medico tende ad avere di se stesso e
del suo ruolo, così come è indotta da un percorso
formativo che enfatizza costantemente gli aspetti
scientifico-tecnici della sua professione fino a
consacrarli come un inderogabile imperativo etico.
1.2 Perché “Progetto
Chirone”
E qui stanno le ragioni
della scelta della denominazione “Progetto Chirone”. Si
fa infatti esplicito riferimento al mito greco del
centauro Chirone, il più saggio e sapiente fra i
centauri, celebre medico e chirurgo.
Nato da stirpe divina e
quindi immortale, fu maestro di Asclepio, il dio della
medicina. Accadde che Chirone fu ferito accidentalmente
da una freccia avvelenata scagliata da Eracle (Ercole
per i Latini), il liberatore di Prometeo. Si narra
infatti che Prometeo, “cugino” di Zeus, offerse all’uomo
in dono il fuoco e l’oblio dell’ora della propria morte.
Come interpreta Platone, il fuoco rappresenta il sapere
tecnico, ma questo sarebbe servito a ben poca cosa se
all’uomo non fosse stata sottratta la facoltà di
conoscere in anticipo la propria morte. L’oblio della
morte, infatti, conferisce all’uomo l’illusione di
essere immortale e, nonostante la sua imperfezione, la
possibilità di avvicinarsi agli dei. Per questo Zeus
punì Prometeo, incatenandolo alla cima del Caucaso e
condannandolo al supplizio di un’aquila che giorno per
giorno gli divorava il fegato. Liberato da Eracle, che
uccise l’aquila, Prometeo fu condannato comunque da Zeus
a portare un anello fatto col ferro delle sue catene e
con un pezzo di roccia del Caucaso, che lo condannava a
vivere nella insopportabile sofferenza del legame con la
sua condizione di prigioniero. Fu allora che entrò in
scena Chirone: questi, ferito dalla freccia avvelenata
col veleno dell’Idra, si era rinchiuso nella sua caverna
soffrendo tremendamente a causa di quella ferita
inguaribile. Essendo immortale, infatti, non poteva né
guarire né morire. La via d’uscita da questa eterna
prigione gli fu offerta da Prometeo che, nato mortale,
offrì a Chirone la possibilità di porre fine alla sua
sofferenza in cambio della sua immortalità. Chirone
accettò di poter morire e finalmente trovò così la pace.
Questo mito riporta
all’immagine del medico come guaritore ferito.
Come si legge nell’introduzione a un bel saggio di
Gadamer (1993):
Qui, accanto all’aspetto
demiurgico del sapere e dell’arte, emerge il dolore
contenuto nella comune matrice umana, corporea e
mortale, che unisce, al di là dei ruoli, medico e
paziente. Per poter curare, il medico non deve mai
pensarsi separato dal suo aspetto di paziente. La
repressione di questo polo della coppia porterebbe il
medico a una soglia pericolosa caratterizzata dalla
convinzione di non avere nulla a che fare con la
malattia. Analogamente, quando una persona si ammala, è
importante che venga alla luce la figura del
paziente/medico, cioè il fattore di guarigione interno
al paziente, la cui azione curativa è uguale a quella
del medico che compare sulla scena esterna. Un medico
“senza ferita” non può attivare il fattore di guarigione
nel paziente e la situazione che si crea è tristemente
nota: “da un lato sta il medico sano e forte, dall’altro
il paziente, malato e debole”.
E questa immagine, un po’
onnipotente e distorta del suo ruolo professionale, il
medico fa una tremenda fatica a scrollarsela di dosso.
E questo dato è fortemente presente anche nell’analisi
dei questionari che abbiamo potuto valutare.
Tanto più radicata è questa
immagine di sé e del suo ruolo, appresa durante il suo
percorso formativo, tanto più profondo è il conflitto
generato dall’esperienza del cancro, dall’essersi
trovato improvvisamente gettato – come si dice –
dall’altra parte della barricata. Dall’aver provato cosa
significa essere considerato “un caso clinico”, una
malattia e non un malato.
Ciò che però è importante
riconoscere è che questa immagine del medico superuomo,
è l’immagine che di esso hanno comunque, loro malgrado,
anche gli stessi pazienti; è l’immagine del medico
prodotta dall’attuale cultura della salute e
della malattia; due categorie fra loro in
antitesi e non due aspetti in rapporto dialettico nel
produrre giorno per giorno il percorso di vita di ogni
essere umano, medico compreso.
“Dottore, si conservi così
perché se si ammala non è più un dottore!”, mi ha detto
scherzando un paziente qualche giorno fa. Scherzava,
però l’ha detto.
E non a caso, infatti, le
critiche alla chiusura della medicina in una ortodossia
paludata, ai medici e alla loro incapacità d’ascolto e
quant’altro, negli ultimi decenni sono sempre state
particolarmente feroci.
Ma – si potrebbe pensare –
se questo problema affonda le sue radici nel Mito,
allora vuol dire che è sempre esistito, che non è un
prodotto esclusivo della nostra cultura più recente.
Io penso che il medico,
nell’immaginario collettivo, e almeno nelle situazioni
che minano più seriamente la nostra salute, sia stato
visto inevitabilmente un po’ come il mediatore tra il
mistero della vita e il mistero della morte. Non tanto
perché lui si sia proposto consapevolmente in questo
modo – anche se in alcune situazioni può essere accaduto
– ma perché ognuno di noi, quando sente che la morte
potrebbe essere vicino, ha bisogno di poter credere che
esiste qualcosa o qualcuno che, al di là delle
conoscenze tecnico-scientifiche, possa produrre per lui
qualcosa di speciale per salvargli la vita. Credo che,
più o meno consapevolmente, questo sia un bisogno
profondo, una sorta di ineliminabile riflesso di
sopravvivenza intimamente connesso con ciò che Franco
Fornari (1985) ha chiamato “capacità di speranza”.
Oggi però il modo di noi
tutti di sentire la vita e il nostro stesso ruolo nel
mondo, sta cambiando non solo profondamente ma anche a
velocità vertiginosa; e così pure, di conseguenza, i
rapporti gerarchici fra i diversi ruoli sociali.
L’accelerazione di questi cambiamenti ha già
abbondantemente superato la nostra capacità di
metabolizzarli, a livello individuale e collettivo
(Schiavone, 2007). Ridisegnare i ruoli e ridefinirne i
rapporti è un lavoro immane che richiede capacità
progettuale, tempo (quel tempo contratto che ci sta
fuggendo via) e la piena consapevolezza di essere
coinvolti in un processo del genere, affascinante e
inarrestabile, ma anche travolgente - se non riusciamo a
governarlo – perché abbiamo già abbondantemente superato
la soglia di reversibilità, ammesso che sia mai
esistita.
La differenza essenziale
rispetto ai secoli passati è il ruolo che oggi ha in
tutto ciò lo sviluppo scientifico-tecnologico e i suoi
rapporti con la vita quotidiana, con la ricerca
scientifica, e infine con la nostra salute e la nostra
malattia. Una volta erano le conoscenze scientifiche a
produrre tecnologia; oggi il processo si è in gran parte
rovesciato, sono le nuove possibilità tecniche a indurre
e consentire la produzione di nuove conoscenze (come è
stato ed è tuttora, ad esempio, in cosmologia grazie al
telescopio spaziale Hubble o in neurofisiologia grazie
alle sofisticate tecniche di RMN e così via). E mai come
in passato, nell’ultimo secolo il sapere
scientifico-tecnologico (oggi appunto non sono più
dissociabili) ha scardinato le coordinate del rapporto
medico-paziente.
Va peraltro riconosciuto
che nei confronti del medico di medicina generale,
l’indice di gradimento da parte dei pazienti è sempre
stato molto elevato; probabilmente perché il suo lavoro
riguarda quella medicina del quotidiano che rappresenta
di fatto un riferimento fondamentale per i molti disagi,
malesseri e sofferenze che affondano le loro radici
nella vita intima della persona e nelle sue relazioni
sociali.
Ciò nonostante,
nell’immaginario collettivo quando si pensa alla
Medicina e si esprimono le critiche più aspre nei suoi
confronti, è all’immagine “specialistica” di essa che ci
si riferisce. Perché lo “specializzarsi” è comunque
vissuto come un valore e lo specialista, occupa, nella
nostra considerazione dei ruoli medici, un posto più
elevato.
È infatti a questo
orientamento “specialistico” del sapere medico nel suo
complesso che sono rivolte le critiche più feroci;
riguardano in gran parte la disumanizzazione prodotta
nel rapporto tra paziente e medico da un certo uso della
tecnologia. Ma non è quest’ultima che l’uomo sta
rifiutando, anzi. È che, nel vissuto comunemente
espresso nelle ormai numerosissime indagini di medicina
sociale, il medico è visto come un professionista che
troppo spesso non usa il sapere scientifico-tecnologico
ma si fa da questo usare. Un professionista che ha
tradito la sua arte per la scienza. E ciò
è tutt’altro che privo di conseguenze quando il medico
si ammala e deve attraversare il guado. E qui una
riflessione sul senso del suo lavoro si impone.
2. Organizzazione della
ricerca
di
Manuela Provantini
Per la realizzazione del
Progetto Chirone, nel 2005 si è costituito un gruppo
interdisciplinare di ricerca, al quale hanno partecipato
diversi specialisti: due oncologi medici, un radiologo,
un epidemiologo, due chirurghi, un medico di medicina
generale, due psicologi e uno statistico, due dei quali
colpiti dal cancro.
All’inizio dei lavori, il
gruppo si è riunito più volte per studiare la
formulazione di un questionario da somministrare a
medici ammalati.
Durante questi incontri si
sono identificate le diverse aree da indagare,
soprattutto sulla base dei racconti esperienziali dei
medici che hanno dovuto affrontare la malattia in prima
persona.
Successivamente, si è
ragionato sull’impostazione delle domande e relative
risposte: a scelta multipla oppure, per altri item, una
scala di gradazione (es. poco, abbastanza, molto).
Il questionario definitivo
è risultato suddivisibile nelle seguenti aree:
1
dati
socio-demografici (rispettando l’anonimato),
2
scoperta
della malattia (tipo e conferma della diagnosi),
3
screening
effettuati (oncologici o di altra tipologia),
4
scelta del
medico e del programma terapeutico,
5
durata
dell’assenza dal lavoro,
6
prognosi (se
ne è a conoscenza e cosa ne pensa),
7
la vita dopo
la malattia (se è cambiata, quanto e in che modo),
8
rapporto
medico-paziente (se è cambiato, quanto e in che modo).
Nella fase successiva, sono
stati contattati 205 primari oncologi italiani (elenco
fornito dall’AIOM), tramite comunicazione cartacea. In
questa si è comunicato lo scopo del progetto, chiedendo
loro di partecipare alla realizzazione dello stesso
proponendo, eventualmente ad altri colleghi che hanno
avuto tale esperienza, la compilazione del questionario.
Si è provveduto, poi, a
contattare telefonicamente i primari e 600 dei restanti
medici associati all’AIOM, per verificare l’interesse al
Progetto e la loro possibilità di collaborazione.
Con alcuni degli
interessati si sono avuti ripetuti contatti sia
telefonici che telematici. In seguito sono stati inviati
i questionari, nel numero di copie da loro richieste e,
secondo le loro esigenze, tramite posta prioritaria o
posta elettronica.
Il questionario è stato
distribuito anche in occasione del “VIII Congresso
Nazionale di Oncologia Medica”, organizzato dall’AIOM e
tenutosi a Milano dal 18 al 21 Novembre 2006, durante il
quale 112 medici di varie specializzazioni e città, ne
hanno richieste diverse copie.
Si è deciso, inoltre, di
diffondere il Progetto Chirone anche in altre occasioni:
1 1 Giugno 2006
- F.A.V.O. Celebrazione della prima Giornata Nazionale
del Malato Oncologico;
2 23 Settembre
2006 – XIII Seminario Nazionale A.M.M.I. - Villa D’Este,
Cernobbio (CO);
3 14 Ottobre
2006 – Associazione Vela “Conferenza Nazionale del
Volontariato in Oncologia” – Ovada (AL).
I medici hanno anche potuto
conoscere il Progetto tramite i siti di Attivecomeprima,
dell’AIOM, dell’ENPAM e della FNOMCeO e richiedere il
questionario all’Associazione.
Dopo la compilazione, i
medici lo hanno spedito alla sede di Attivecomeprima, in
forma anonima; alcuni hanno preferito inserire i loro
dati e scrivere qualche commento riguardo alla ricerca.
A raccolta avvenuta, i dati
sono stati inseriti all’interno di un database
appositamente strutturato per agevolarne la successiva
elaborazione.
La raccolta è stata
completata ad aprile 2007 con un ritorno di 103
questionari e i dati sono stati elaborati
statisticamente.
Nella fase conclusiva, i
partecipanti si sono ritrovati in diverse altre
occasioni per riflettere sui risultati ottenuti e per
trarne delle conclusioni significative.
Gruppo di ricerca :
Fabio Baticci (chirurgo –
Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano), Franco Berrino
(epidemiologo – Istituto dei Tumori di Milano), Salvo
Catania (chirurgo oncologo – responsabile U.O. Senologia
Chirurgica Policlinico Multimedica e Istituto S.Ambrogio
di Milano), Francesco Della Beffa (statistico –
Attivecomeprima Onlus), Stefano Gastaldi (psicologo,
psicoterapeuta – Attivecomeprima Onlus), Mariagrazia
Lazzari (radiologa – Ospedale San Gerardo di Monza),
Manuela Provantini (psicologa – Attivecomeprima Onlus),
Alberto Ricciuti (medico di medicina generale–
responsabile dell’attività di supporto di medicina
generale durante la chemioterapia – Attivecomeprima
Onlus), Claudio Verusio (oncologo medico – primario
Oncologia Medica Ospedale di Saronno), Silvia Villa
(oncologo medico – dirigente U.O. Oncologia Ospedale di
Lecco).
Le persone appartenenti a
questo gruppo sono co-autrici dello studio, i cui
risultati sono riportati in questo libro.
3. Nota metodologica
di
Francesco Della Beffa
3.1 Caratteristiche e scopo
dello studio
Il progetto Chirone è
sostanzialmente uno studio trasversale descrittivo sui
medici malati di cancro, i cui obiettivi però non
vogliono – né potrebbero – collocarsi nell’ambito
clinico o epidemiologico, ma piuttosto nell’ambito
psico-sociologico. Coerentemente con questa
collocazione, gli strumenti e le metodologie adottati
sono piuttosto quelli della ricerca psico-sociale che
quelli dell’epidemiologia o della statistica medica. Gli
elementi su cui si basa l’indagine non sono cioè misure
oggettive, campioni randomizzati e controlli, bensì
valutazioni soggettive e campioni in parte anche
autoselezionati, dai quali si possono comunque trarre
suggerimenti, indicazioni e alcune conclusioni
significative.
L’oggetto dell’indagine,
come è stato detto, è il rapporto che il medico con una
diagnosi di cancro ha con la malattia, i cambiamenti che
essa induce nella sua vita e tra questi, di particolare
interesse, gli eventuali cambiamenti nel rapporto con la
professione e con i pazienti. Si tratta perlopiù di
valutazioni personali, la cui rilevazione può esser
fatta attraverso le dichiarazioni spontanee dei medici,
raccolte mediante un questionario.
Si noti che il progetto non
ipotizza a priori alcuna specificità del medico in
quanto tale nel rapporto con la malattia, se non per
quanto attiene al coinvolgimento nella definizione della
diagnosi e della terapia e, ovviamente, a una
consapevolezza clinica e prognostica maggiore rispetto
ai non medici. La specificità che invece costituisce la
motivazione principale dello studio è che il medico è
chiamato ad affrontare professionalmente per e con i
suoi pazienti lo stesso evento – la malattia – che deve
affrontare personalmente, e che questo modifichi
l’esperienza ed eventualmente anche la pratica
professionale.
In questo senso assumono un
ruolo cruciale la soggettività del medico e la sua
percezione sul mutamento dei propri atteggiamenti,
mentre l’individuazione di un gruppo di controllo
rispetto al quale valutare le risposte ottenute sembra
alquanto improbabile e anche meno importante.
Dove però, come vedremo,
sono disponibili informazioni oggettive, diventano
possibili e potenzialmente interessanti gli
approfondimenti sui possibili fattori che, in modo
generalizzato o selettivamente, influenzano i
cambiamenti.
3.2 I dati
La raccolta dei dati è
stata effettuata mediante un questionario auto
compilato. I contenuti del questionario e la loro
formulazione sono stati definiti da un gruppo di lavoro
multidisciplinare, come descritto nel capitolo
“Organizzazione della ricerca”. Prima di essere
distribuito il questionario è stato somministrato ad
alcuni medici non appartenenti al gruppo di lavoro e
messo a punto sulla scorta delle loro osservazioni.
Tutte le domande sono state
formulate come domande chiuse, tranne la
specializzazione del medico, lo stadio e il tipo
istologico del tumore.
I dati del questionario
sono stati integrati a posteriori dalla stima della
gravità della malattia, valutata da una commissione di
esperti sulla base del tumore, dello stadio e del tipo
istologico.
3.3 Popolazione e
campione
La popolazione di
riferimento dello studio è quella dei medici malati di
cancro, intendendosi con questo i medici con una
precedente diagnosi di cancro. L’indagine è limitata al
territorio nazionale, senza alcuna esclusione rispetto a
età, genere, tipo di tumore, anno della diagnosi o
altro.
La prevalenza del cancro
nei medici italiani è stata stimata incrociando i dati
nazionali per genere, classe di età e area geografica
(fonte: “Tumori”, Società Italiana di Cancerologia e
AIOM, vol. 85, num. 5, 09-10/1999), aggiornati con dati
2005 (fonte: progetto “I tumori in Italia”,
www.tumori.net, stime e proiezioni da dati ISTAT ed
EUROCARE 3 a cura del Reparto Epidemiologia dei Tumori
del Centro Nazionale di Epidemiologia Sorveglianza e
Promozione della Salute dell’Istituto Superiore di
Sanità), con il numero di medici italiani suddivisi
nelle stesse classi (fonte: ENPAM, numero di iscritti
per fasce di età, sesso e residenza al 31/12/2005). La
stima fornisce un numero di medici malati di cancro in
Italia poco superiore a 10.000, dei quali il 54% di età
non superiore a 60 anni e il 74% maschi.
Le modalità di
campionamento sono descritte dettagliatamente nel
capitolo “Organizzazione della ricerca”. In sostanza,
contattando nel modo più sistematico possibile gli
oncologi italiani, si è cercato di estendere la base
degli intervistati, generalizzando al massimo i criteri
di inclusione, con l’obiettivo di ridurre le distorsioni
dovute ai canali di rilevazione. Resta peraltro evidente
che l’autoselezione degli oncologi curanti prima e dei
medici malati dopo costituisce essa stessa una
distorsione del campione, la quale opera certamente nel
senso di selezionare i soggetti più sensibili alla
tematica del progetto. Su come poi questa maggiore
sensibilità si manifesti nelle risposte e negli
atteggiamenti, se cioè ad esempio i medici partecipanti
siano più o meno disponibili degli altri nei confronti
dei pazienti, non sembra però scontato. Concludiamo che
una distorsione sistematica nel campione esiste
senz’altro, ma che il suo effetto sugli atteggiamenti e
sui cambiamenti dichiarati non ha un verso certo e
prevedibile, e può quindi essere considerato poco o
punto influente, almeno al livello del campione e degli
obiettivi attuali.
La raccolta dei questionari
ha avuto luogo tra settembre 2006 e aprile 2007. Sono
stati raccolti complessivamente 103 questionari. Questa
numerosità campionaria consente di stimare le
percentuali della popolazione con un errore massimo di
±10%, con una affidabilità del 95%.
Le principali
caratteristiche del campione sono riassunte nei grafici
di fig. 1. Rispetto alla popolazione di riferimento, nel
campione sono sovra-rappresentati i medici fino a 60
anni (67%) e le donne (41%). La distribuzione geografica
mostra anche un sovracampionamento dell’area
Piemonte-Aosta-Ligura-Lombardia, quasi certamente dovuto
alla maggior disponibilità di contatti diretti
dell’Associazione. I principali tumori rilevati sono:
colon retto (32%), prostata (17%) e polmone (13%) per i
maschi, mammella (79%) per le femmine.
6. L’esperienza di
una radiologa che ha vissuto la malattia: cosa vuol dire
fare senologia prima e dopo il tumore al seno
di
Mariagrazia Lazzari
Avevo trascorso la mia
esistenza tra le immagini, cercando una soluzione,
un’interpretazione in un gioco di grigi e di
trasparenze.
Attraverso il buio
illuminato di una parete luminosa, studiavo le forme, i
contorni, le dimensioni confrontandole con tutte le
possibili varianti dell’immagine ideale, cercando di
cogliere tutti i significati di uno scostamento rispetto
a ciò che è considerato “normale”.
Quella realtà in bianco e
nero rappresentava ciò che sta dentro, codificava e
controllava la giusta posizione ed il funzionamento dei
componenti, così come poteva testimoniare il
cambiamento, la devianza, la malattia.
Lo spazio tra l’interno e
l’esterno si strutturava in chiari e scuri che mano a
mano diventavano intelligibili, e potevano essere
testimoni di una alterazione, di un dolore, di un
percorso pieno di difficoltà che avvertivo così
intensamente da identificarmi somatizzandole,
integrandole sotto forma di paure. I primi tempi della
mia professione, imparando ad eseguire i tubi digerenti
“soffrivo” di mal di stomaco e di acidità, così come di
intenso meteorismo quando facevo i miei primi “clismi
opachi”.
Quindi ci fu il tempo in
cui mi sentivo i sintomi del carcinoma ovarico, malattia
che frequentemente potevo osservare essendo presente nel
mio ospedale una avanzata chirurgia specialistica ed
essendo una patologia che colpisce le giovani donne. Ci
fu il periodo del timore dei linfomi, del melanoma, di
varie patologie neurologiche attraverso parestesie e
formicolii, disturbi respiratori ed altri ancora…così
per qualche anno. Poi credo che a un certo punto mi
accorsi che stavo bene, molto bene, erano gli altri ad
ammalarsi, solo gli altri e le mie paure sfumarono
progressivamente:ero diventata sostanzialmente
invulnerabile.
La mia attività divenne più
specialistica e focalizzai la mia attenzione verso quel
tumore che colpisce quella meravigliosa parte del
femminile.
Una discreta parte della
mia attività divenne identificare gli addensamenti, le
asimmetrie, le distorsioni, le micro calcificazioni
raggruppate, le formazioni ipoecogene con sbarramento
acustico posteriore, tutti i segnali per smascherare
quell’intruso perché potesse essere estirpato in tempo,
per consentire a quante più pazienti possibile di avere
ancora molti anni da vivere. Io che avevo scelto la
strada delle immagini perché temevo il contatto diretto
con il dolore, imparavo ad ascoltare le donne che
venivano a fare la mammografia portandosi dietro le
paure di tutta una vita e facendole esplodere in pochi
attimi. Così attraverso una amorosa ricerca nelle loro
storie e nelle loro immagini, cercavo, nel mio piccolo,
di liberarle dalla paura di vivere.
Poi ci fu un periodo oscuro
della mia esistenza, nero come la pece, nel quale nulla
mi pareva risplendere tranne la mia bambina e questo
contatto con le pazienti, tutto sembrava inesorabilmente
sommerso nel mare della mia solitudine. Quando il buio
incominciava a rischiararsi un giorno, sotto la doccia,
vidi una cosa incredibile: la retrazione del capezzolo.
Avevo fatto una mammografia un anno prima sovrapponibile
alle precedenti, è vero c’era un po’ di asimmetria ma
c’era sempre stata a causa di 2 cisti affiancate,
proprio dietro al capezzolo: erano state identificate
dopo la prima mammografia. Non avevo ripetuto
l’ecografia appunto perché il quadro mammografico era
stabile. Non avevo alcuna famigliarità per tumore ed ero
ancora giovane. Non è possibile, è assurdo, pensai, così
come il giorno successivo mi sembrò paradossale ciò che
vidi mentre mi facevo l’ecografia.
Era capitato “proprio a me”
come mi dicevano le pazienti, ma quel “proprio a me” mi
sembrava più appropriato nel mio caso. Come era
possibile, io cercavo le micro calcificazioni
raggruppate in pochi millimetri e là dietro al
capezzolo, in quell’area opaca dove c’erano le 2 cisti
ora si trovava una neoplasia di più di 2 cm di diametro.
La sorte si era davvero presa gioco di me. Fu
un’esplosione. Mi sentivo soverchiata dai sensi di colpa
nei miei stessi confronti per non essermi presa cura
proprio di me e nei confronti della mia bambina che non
avrei potuto accompagnare fino all’età adulta. Non avrei
più pensato a progetti e cambiamenti a lungo termine.
Mi veniva presentato il
conto in anticipo e io non avevo preparato i soldi per
pagarlo. Ci fu l’intervento, il seno era piccolo, il
tumore centrale, fu una mastectomia. Inoltre 5 linfonodi
della prima stazione erano interessati. Era
interminabile la chemioterapia in quell’estate, la più
calda di cui si avesse memoria, resa ancor più torrida
della parrucca e dalle vampate di calore da menopausa
farmacologica. Tuttavia il mio corpo, sul quale, con
l’aiuto di bravissimi chirurghi plastici, si stava
strutturando la ricostruzione, reagiva bene ed anche e
soprattutto il mio spirito reagiva bene. Ogni giorno mi
sentivo più forte, qualche piccolo cedimento ogni tanto,
la nausea, la stomatite, i disturbi digestivi e quant’altro
ma ero viva, davvero viva e consapevole di esserlo.
Cominciai a pensare: non so
quanto vivrò ma nessuno lo sa, siamo tutti “a termine”,
quello che so è che ora sto vivendo, ho questa
meravigliosa opportunità di poter vivere la mia vita,
farò in modo con tutte le mie forze di farla durare più
a lungo possibile e cercherò in ogni momento di renderla
piena di amore per me stessa e quando mi sarò colmata di
questo amore potrò anche riversarlo sugli altri, solo
allora saprò capire ascoltando.
Non potevo più dare spazio
al senso di colpa: non mi ero presa cura proprio di me
stessa, è vero, ma in quel momento buio non potevo fare
altro, mi ero ritrovata dentro di me proprio quell’intruso
contro cui combattevo fuori di me. Solo ora capivo il
senso e la necessità di occuparsi, di osservare
amorevolmente. Da quel giorno ho capito la vera
necessità di eseguire con attenzione e senza assurdi
tabù l’auto-palpazione, che può portare alla conoscenza
ed alla accettazione del proprio corpo e di tutto quello
che contiene, quel gesto che insegnavo alle altre ma che
io non facevo!
Ho capito che questa
incredibile esperienza poteva essere un insegnamento,
una valenza aggiuntiva: ora potevo capire col cuore e
non solo con la mente cosa significa prevenzione e
potevo trasmettere alle donne che come me si ammalavano,
come e perché si può guarire da questo male.
Così quando tornai a
lavorare decisi che volevo continuare ad occuparmi di
senologia, che è diventata anzi la porzione più grande
della mia attività lavorativa. Era un po’ anche una
sfida, la sensazione di vincere ogni giorno una
battaglia, una lotta corpo a corpo con la paura di
morire, esprimendo anche in questo modo la necessità di
vivere. Soprattutto però è stato e continua ad essere un
nuovo, speciale modo di stare di fronte alla paziente
che mi consente, attraverso la dolcezza e la fermezza
che mi sono scoperta e riconosciuta, di dare fiducia e
speranza proprio mentre eseguo una biopsia o quando devo
comunicare la presenza della brutta malattia.
È un viaggio verso la
consapevolezza che posso esprimere con la serenità che
ora mi sento e che penso di potere dare. Certo ogni
tanto ancora oggi accuso qualche cedimento, soprattutto
quando incontro le recidive di malattia, ma la
conoscenza che ho acquisita di me stessa, di ciò che
faccio e di ciò che voglio trasmettere vanno oltre
questi momentanei cedimenti.
Il perché “proprio a me”
ora pare avere un significato: mi è sembrato di vivere
una delle esperienze più dolorose ma questa si è potuta
trasformare in un dono portandomi l’amore ed
insegnandomi l’ascolto di me stessa e della vita che sto
vivendo.
È’ davvero un grande regalo
il profondo significato che possiamo dare ed anche
insegnare attraverso l’esperienza dolorosa e la
malattia: possiamo addirittura fare emergere la parte
più viva della nostra esistenza.
1. Conclusioni
di Alberto Ricciuti
e Stefano
Gastaldi
Le vicende che si svolgono
intorno all’esperienza del cancro, quando è un medico ad
ammalarsi, sono influenzate da due grandi questioni,
intrecciate tra loro.
Da un lato vi è il naturale
essere e reagire del medico-persona davanti a un trauma,
un dolore profondo, una paura che riguarda la sua salute
e la sua sopravvivenza, dall’altro vi è la cultura del
ruolo medico, determinata dalla cultura sociale,
scientifica e professionale della Medicina in Occidente.
L’ipotesi che ci ha guidati
nella ricerca e che ci ha fatto raccogliere i contributi
presenti in questo libro è quella che le esigenze della
persona siano antecedenti e prioritarie rispetto alle
esigenze di ruolo, anche se, essendo la professione
medica ad alto tasso motivazionale, le persone che la
scelgono possono usare il ruolo per esprimere parti di
sé molto importanti e vitali.
Proprio nel momento in cui
il medico si ammala di ciò che cura, egli rischia di
entrare in crisi “dappertutto” perché i sentimenti di
precarietà legati alle insidie della malattia cancro non
possono spesso essere curati dalle conoscenze e dalle
competenze del ruolo (che, anzi, gli suggerisce il
peggio). La crisi della persona e la crisi del ruolo
professionale tendono a unirsi, sovrapporsi e coincidere
per molti aspetti.
A nostro parere, i dati
raccolti indicano anche che nel medico è comunque in
corso un importante processo di mutamento dell’immagine
che egli ha del suo ruolo.
È un mutamento sofferto,
che rivela tutti gli aspetti conflittuali di un
cambiamento profondo dell’immagine di sé come
professionista. Il ritratto del medico che emergeva
dalle indagini e dagli studi di medicina sociale degli
ultimi decenni, dipinto come professionista che difende
il potere di un ruolo paludato, che parla un linguaggio
tecnico poco o nulla comprensibile ai malati, che non
ascolta il paziente e gli impone le sue prescrizioni in
modo paternalistico, chiuso nella sua torre d’avorio,
insomma, sembra che si stia lentamente sgretolando.
E questo accade sulla
spinta dei profondi mutamenti sociali che ci coinvolgono
tutti umanamente e professionalmente. Lo sviluppo
scientifico-tecnologico - e soprattutto la velocità alla
quale sta avvenendo - come abbiamo già rilevato, è
sicuramente il motore principale di questi cambiamenti,
tanto che la nostra stessa concezione del tempo si sta
stravolgendo al punto da farci perdere il senso dello
spessore storico degli eventi e con esso perfino la
capacità di vedere un futuro. Le possibilità tecniche di
gestione a lungo termine di patologie invalidanti, le
tecniche di fecondazione assistita e di manipolazione
genetica, l’aumento esponenziale dei mezzi di
comunicazione e di elaborazione dei dati disponibili, la
“vita in diretta” che ci stiamo abituando a vivere,
stanno disarticolando tutto il sistema di valori sui
quali si sono retti per secoli i sistemi sociali e i
rapporti di ruolo nelle varie attività umane e
professionali, medicina compresa. Grazie a queste
possibilità gli stessi ‘pazienti’ possono accedere alla
velocità di un click del mouse a una quantità sterminata
di informazioni sulla loro patologia, sulle modalità di
diagnosi e sulle possibilità di cura; e tutto questo,
incluso l’aumento delle possibilità di vita in molte
patologie gravi come il cancro, li ha resi sempre più
‘esperti’ e sempre più in grado di erodere lentamente lo
spazio sacrale che per secoli ha circondato la figura
del medico che – teniamolo presente – prima di essere
tale, è anch’egli un uomo del suo tempo. Un uomo che sta
vivendo in prima persona lo stravolgimento dei codici di
ruolo che costituivano da secoli i suoi sicuri punti di
riferimento e di difesa; e, quando si ammala di cancro,
tutto questo assume una particolare evidenza.
È importante riconoscere
che questo complesso di dinamiche di cambiamento della
coscienza individuale, collettiva e professionale,
sembra aver superato da tempo il suo punto di
reversibilità e sembra aver assunto – in un’ottica
sistemica - le caratteristiche di un fenomeno emergente
di autorganizzazione, che possiamo e dobbiamo riuscire a
governare – per non esserne travolti - prima di tutto
divenendone più consapevoli.
Davanti all’incertezza
grave sul futuro (come quella dovuta a una malattia
severa e insidiosa come il cancro) gli esseri umani
possono reagire creativamente oppure rinchiudersi in una
difesa talvolta triste, ossessiva e poco vitale.
I medici fanno altrettanto.
Una parte di loro reagisce creativamente, un’altra si
blocca e sviluppa una sorta di ritiro parziale dalla
vita.
Tutto ciò influisce sul
rapporto col paziente, che tende a essere più aperto e
umano nel primo caso, molto meno nel secondo.
Ciò che emerge nel
travaglio dei traumi è però, molto spesso, una verità
sepolta. In questo caso, la verità che i medici
esprimono è quanto possa essere importante, dopo la
malattia, investire nelle relazioni e negli affetti, sia
come persone sia come medici.
Se dopo la malattia è
dunque possibile, e anche bello, dare più spazio alla
propria umanità nella vita e nella professione, perché
non pensare che questa è una ricetta naturale per vivere
e lavorare, anche senza bisogno di ammalarsi?
Questa ricerca ci
suggerisce che il cambiamento delle coordinate di
pensiero di un “far medicina” non solo più evoluto sul
versante della competenza tecnico-scientifica, ma anche
più maturo e più libero sul versante dell’umanità del
medico, nelle più intime pieghe del rapporto
medico-paziente è già iniziato.
Non ci resta quindi che
raccogliere con spirito di gratitudine l’indicazione che
sembra giungere dall’interno dello stesso mondo della
medicina e continuare a lavorare per potenziare
l’alleanza naturale tra malato e medico e riorganizzare
intorno alla persona i percorsi di cura nella nostra
Sanità.
Il fatto, per il medico, di
mettere in gioco nella relazione di cura la sua umanità
di “guaritore ferito” e, per il paziente, di
riconoscerla come potente risorsa per essere
maggiormente compreso e ancora meglio curato, non
diminuisce la capacità umana e professionale del medico
di curare il suo paziente ma la potenzia enormemente.
Perché dobbiamo sempre ricordare che – rubando le parole
a Umberto Galimberti – non si muore perché ci si ammala,
ma ci si ammala perché si muore.
|