QUALE "INTEGRAZIONE" IN MEDICINA?

di Alberto Ricciuti
Medico. Socio Fondatore dell'Associazione Italiana per la Ricerca sui Sistemi (http://www.airs.it/).
Membro del Comitato Tecnico Scientifico e della Commissione Ristretta per la Valutazione dei Protocolli di Ricerca di Medicina Complementare della Regione Lombardia.
Vicepresidente dell'Associazione Attivecomeprima-Onlus (http://www.attivecomeprima.org/)


L'acceso e tormentato dibattito intorno al rapporto fra medicina accademica e medicine non convenzionali che ha occupato almeno gli ultimi trent'anni, ha visto succedersi, a fasi alterne, una lunga serie di proposte, interpretazioni, aperture, chiusure, tolleranze e intolleranze. Da un lato il mondo della cosiddetta "medicina ufficiale", frammentato per le diverse idee e opinioni in proposito, ma assolutamente compatto nelle solide basi del suo sapere. Dall'altro il variegato mondo delle medicine non convenzionali, tutt'altro che omogeneo, frammentato in varie correnti e scuole spesso irrigidite nei loro integralismi, che, nonostante la preziosità di gran parte dei suoi contenuti, non è mai riuscito a riconoscersi, se non in modo assolutamente generico, in una cultura clinica comune. E questo ha sancito, e sancisce tutt'oggi, la sua forse maggiore debolezza. La parola "medicina" origina dal latino mederi, curare, medicare. E già dice tutto il necessario per identificarne con assoluta chiarezza i contenuti. Il bisogno di aggiungere aggettivi e specifiche ("non convenzionale", "alternativa", "complementare", "naturale", perfino "psico-somatica"…) rischia di impoverirla, e ha un po' il sapore della ricerca di un suo originario significato andato smarrito. Ma tant'è; questi sono i tempi, e può darsi che riflettere su quegli aggettivi sia d'aiuto a ritrovare il significato più pieno e autentico di quella parola; una parola che ci rimanda sempre e comunque all'incontro tra un io e un tu. In questo contesto fluido e conflittuale un aggettivo che si vede spendere con frequenza sempre maggiore accanto alla parola "medicina" è "integrata". Se da un lato tale termine rimanda a un orientamento di pensiero che vuol essere costruttivo, teso a superare almeno le più ingenue e improponibili pretese "alternative", dall'altro il problema è che coloro che lo usano propongono, in pratica, una concezione della medicina che la vede come uno spazio nel quale teorie e tecniche nate in diversi contesti culturali, devono poter convivere tra loro e con la medicina tecnologica ed essere utilizzate con opportuna flessibilità. Tra quelli proposti, tale approccio è indubbiamente la migliore mediazione tra le attuali conflittualità; il rischio però è che, seguendo questa strada, si realizzi solo una sorta di eclettismo diagnostico-terapeutico nel quale diversi linguaggi, metodi e teorie della salute e della malattia, semplicemente convivono fianco a fianco tollerandosi l'un l'altro. D'altra parte, anche se i rapporti fra i contesti accademici della medicina e le varie medicine non convenzionali spaziano ancora ampiamente fra tentativi di collaborazione e aspri conflitti, questa, nel bene o nel male, è già l'attuale situazione di fatto. Peraltro, i criteri di utilizzo delle Medicine disponibili da parte degli utenti, sono in genere corretti e ispirati al semplice buon senso. Il timore, infatti, che le pratiche di medicina non convenzionale possano distogliere i pazienti da cure di provata efficacia specie in caso di gravi patologie, non trova alcun serio riscontro in tutte le ricerche di medicina sociale, inclusi i rapporti CENSIS pubblicati nel 1989 e 1998 sui comportamenti e valori dei pazienti italiani. Si sta così realizzando una spontanea integrazione eclettica di metodi di cura limitata solo - salvo alcuni casi particolarmente felici sul territorio nazionale - dal loro mancato riconoscimento da parte del Servizio Sanitario pubblico e quindi, in ultima analisi, dalla disponibilità economica degli utenti. Vi sono però anche modi più complessi e culturalmente più maturi e fecondi di intendere l'integrazione. Il primo a teorizzare una "medicina integrata" - fino a fondarne una Scuola negli ultimi anni '70 del secolo ormai scorso - fu Luigi Oreste Speciani nel 1973. E' utile ricordarlo - oltre che per doveroso riconoscimento storico e onestà intellettuale - perché il tipo di integrazione da lui proposto aveva un significato di ben altra portata culturale. Anzi, egli metteva in guardia dalle tentazioni eclettiche perché le vedeva come una pericolosa e facile scappatoia che non centrava la vera natura e complessità del problema. La sua posizione non era quella del medico "alternativo", ma quella di un medico del suo tempo che aveva maturato la piena consapevolezza del vicolo cieco disumanizzante nel quale l'ideologia scientista e tecnicista stava spingendo la medicina conducendola, peraltro, verso la bancarotta sul piano socio-economico. A parte l'enfasi seduttiva del suo argomentare - che tradiva a volte l'umana ambizione di riuscire a proporre una teoria della medicina finalmente esaustiva - Luigi Oreste Speciani fu tra i primi a individuare ed esaminare con grande lucidità le ragioni più profonde e autentiche della crisi della medicina occidentale (Speciani L.O., 1960, 1976). A cominciare da quegli anni infatti sono innumerevoli le analisi e le ricerche di medicina sociale che hanno mostrato le ambiguità e le contraddizioni di cui la medicina odierna soffre nonostante la straordinaria abbondanza di preziose tecnologie (Illich, 1976; McKeown, 1976; Maccacaro, 1966-76; Speciani, 1960, 1976; Engel, 1977; Bensaïd, 1981; Capra, 1982; Basaglia, 1982; Bosio, 1986; Jaspers, 1986; Anschütz, 1987; Skrabanek e McCormick, 1989; Losi, 1990; CENSIS, 1989, 1998; Secondulfo, 1987, 2000). La crisi di una medicina che ha finito per identificarsi con l'apparente onnipotenza del suo strumentario tecnologico e ha perso la capacità di ascolto della persona in condizione di sofferenza; la crisi di una medicina che fatica a distinguere fra la miglior terapia della malattia e la cura più adeguata per la persona; la crisi di una medicina che, con l'impostazione teorica e metodologica che si è data, vede inevitabilmente ed esponenzialmente aumentare la spesa pubblica al punto da non essere ormai quasi più sostenibile. Ed è qui che economia, politica e medicina intrecciano pericolosamente i loro interessi conflittuali fino a condizionare la stessa ricerca scientifica e l'accesso alle riviste internazionali. Raramente, infatti, vediamo le più genuine competenze medico-sanitarie ed etiche al tavolo delle decisioni per l'allocazione delle risorse. Più spesso tali decisioni sono ispirate dai valori puramente economici, piuttosto che umani, dei supertecnici della politica e dell'economia. Lo straordinario interesse di Luigi Oreste Speciani per metodi diversi di lettura e di approccio ai problemi della salute erano motivati dall'urgente bisogno per la nostra medicina scientifico-tecnologica, di recuperare "l'amore per l'uomo" anche attraverso la disponibilità non preconcetta a prendere in esame modelli di sanità e metodi di cura della persona nati in altri contesti storici e culturali. D'altra parte, se era necessaria una condanna decisa e coraggiosa degli errori causati dalla deriva scientista dell'attuale medicina, era anche indispensabile salvarne le straordinarie potenzialità. Per scoprire qualcosa di nuovo non occorre necessariamente fare nuove ricerche - sosteneva Speciani - è già sufficiente, per iniziare, rileggere l'enorme mole di dati di cui disponiamo e metterli in relazione l'un l'altro secondo un nuovo ordine logico. Un ordine logico che poteva essere individuato mettendo a confronto approcci culturali diversi alla salute dell'uomo, senza nessuna esclusione preconcetta. Integrare le diverse metodologie significava allora far interagire le diverse conoscenze e metodi, alla ricerca prima di tutto di un linguaggio comune e condiviso e, di conseguenza, di un modello di sanità che riposizionasse finalmente la persona al centro dei suoi percorsi culturali, comunicativi, operativi. Gli strumenti e i metodi della moderna medicina sperimentale, non erano rifiutati, anzi, occorreva conoscerli a fondo per essere pienamente consapevoli delle loro potenzialità ma anche dei loro limiti; presupposto essenziale per usarli correttamente e per non farsi usare da essi. Mettere la persona al centro, quindi, non può esaurirsi nello slogan recitato da tutti ormai quotidianamente, ma deve essere il criterio guida per ridisegnare l'organizzazione della sanità sullo stesso territorio. Il cambiamento che auspicava non muoveva dall'esterno dell'edificio della medicina, ma dal suo interno; da medici assolutamente "ufficiali" e per nulla "alternativi"; da medici per i quali - come egli scrisse - "l'amore per l'arte" non aveva eclissato "l'amore per l'uomo". Ciò che la medicina naturale, complementare o come dir si voglia non ha saputo - o non ha voluto - fare, è entrare in questo dibattito e portare gli argomenti di valore suggeriti da differenti impostazioni culturali del sapere medico, come fertilizzante per riumanizzare dall'interno la nostra medicina occidentale o meglio, per riuscire a comprendere le ragioni che l'hanno via via disumanizzata e poterle così correggere. E Dio sa di quanto ce n'è ancora bisogno! Le varie Medicine hanno invece seguito troppo spesso la via della contrapposizione fra Scuole, intrappolandosi o facendosi intrappolare sul terreno del confronto di efficacia fra i loro stessi strumenti e quelli della cosiddetta medicina ufficiale, alimentando così quell'immagine di medicine "alternative" che le condanna all'isolamento e fornisce ampio pretesto per le continue scomuniche da parte dell'ortodossia medica più intransigente. Non sono riuscite a costruire un terreno culturale comune nel quale riconoscersi e dal quale trarre forza e autorevolezza. Non sono riuscite - almeno finora e ammesso che non sia una precisa scelta il non farlo - a riconoscersi in una cultura clinica comune in grado di aprire, con la medicina accademica, un dialogo fecondo sul piano dell'analisi storica e filosofica delle ragioni dell'attuale crisi della medicina e delle possibili vie di soluzione o di gestione dei problemi della salute e della ricerca scientifica. Anche quest'ultima, infatti, è coinvolta nel dibattito perché è profondamente diverso fare ricerca orientata alla malattia o alla persona malata; due orientamenti, peraltro, non in conflitto ma complementari. E tutto questo per aiutare tutti noi, medici e non medici, a sentirci comunque al centro delle attenzioni dei sanitari e parte attiva nel processo di cura quando ci ammaliamo; sia sul piano del rapporto paziente-medico a livello individuale, sia su quello del rapporto paziente-organizzazione sanitaria a livello sociale. Se, in generale, l'orientamento alla valorizzazione delle istanze personali caratterizza più spesso i vari approcci di medicina complementare (ed è questo che la maggior parte dei pazienti va cercando), è anche vero che, al fondo, è sempre una questione di capacità empatica, di sensibilità umana e di capacità di ascolto dell'operatore, qualsiasi tipo di "medicina" egli pratichi. Peraltro, il fatto di praticarne una complementare, non è certo una garanzia a priori di avere messo "la persona al centro". Il problema, se andiamo alle sue radici, è di natura filosofica ed è in questa sede che va ricomposto; ma non sembra che i filosofi spendano molte energie in questa direzione. Riguarda la separazione tra le due categorie del biologico e del biografico che consegue alla nascita della cosiddetta "filosofia moderna".

Il modello biomedico: le ragioni "teoriche" della crisi

Il paradigma cartesiano che informa il nostro imprinting culturale relega ogni considerazione riguardante la categoria del biografico nell'ambito della res cogitans, dominio delle scienze umane, in opposizione alla res extensa, dominio delle scienze naturali, al quale appartiene la categoria del biologico. La dimensione biografica della persona, quindi, vivrebbe e agirebbe in una dimensione squisitamente psico-affettiva che i medici, forse per lo spirito di carità che in qualche modo ha sempre accompagnato la loro professione, non possono comunque non considerare nella loro prassi quotidiana. Di fatto però, il principio di separazione sancito dal paradigma cartesiano, svilisce tutto ciò che appartiene alla categoria del biografico, a una sorta di astratta retorica dei sentimenti senza nessun effettivo contatto col nostro essere concreto. Il nostro paradigma culturale, che disgiunge il soggetto dall'oggetto, il malato dalla malattia, disgiunge così tutto ciò che percepiamo come la nostra più autentica identità personale dalla corporeità, assegnandole a due diverse categorie di fenomeni tra loro incomunicabili: uno puramente psichico, l'altro puramente fisico. Non solo ma, a causa della riduzione dell'umano al naturale prescritta dal paradigma cartesiano - detto anche per questo "paradigma di semplificazione" (Morin, 1982) -, ogni volta che il medico esprime un giudizio clinico centrato sulla persona, in conflitto con le indicazioni 'statisticamente fondate' del sapere scientifico riguardo alla malattia di cui quel paziente soffre, lo fa a suo rischio e pericolo e può essere addirittura ritenuto 'in odore' di comportamento eticamente scorretto. Con questo uso truffaldino dell'etica, quindi, si fa gravare su di lui un pre-giudizio che sancisce il suo comportamento come moralmente riprovevole. Pre-giudizio che ha il sapore di una scomunica. Il processo di riduzione dell'umano al biologico che è proprio del "paradigma di semplificazione" separa - per statuto epistemologico - l'individuo dal suo contesto di vita. Così come lo separa dal suo ambiente esterno - non considerando le dinamiche relazionali che lo legano al suo contesto sociale e affettivo - lo separa dal suo ambiente interno, ossia da quella rappresentazione del mondo e di se stesso in base alla quale decide gli atti della sua vita e gli attribuisce un 'senso'. Lo stereotipo cognitivo che caratterizza l'attuale paradigma culturale prescrive che anche la stessa malattia, in un certo senso, sia separata dal corpo biologico che ne è il contenitore. In virtù di questo processo di reificazione, la malattia assume i connotati di un nemico e colui che ne è 'affetto' ha il dovere morale di 'combattervi contro'. E, almeno fin tanto che è in battaglia, è virtualmente (e spesso anche fisicamente…) escluso dal contesto sociale dei 'normali', quanto meno perché 'non produttivo'. Tutto ciò induce nell'individuo, nel suo abituale modo di 'sentire la malattia', la precisa sensazione di una regressione del suo status sociale dalla quale - più o meno consapevolmente - tende a difendersi, instaurando comportamenti di negazione della stessa malattia come, per esempio, il tenerla nascosta nell'ambiente di lavoro o ad altre persone in varia prossimità affettiva, a volte persino a se stesso. E questo, specie nelle malattie più gravi, aumenta il senso di solitudine in cui il malato vive e può contribuire a creare in lui un clima interiore "senza speranza". Il medico, infatti, più che un alleato, è spesso percepito come un esperto che parla un linguaggio poco comprensibile e che combatte la malattia con le armi che la tecnologia gli ha consegnato. Un esperto che, quando non riesce a vincere la battaglia, si permette di pronunciare l'inappellabile sentenza di condanna "non c'è più niente da fare". Negli ultimi vent'anni si sono moltiplicati a dismisura, da un lato le accuse ai medici di preoccuparsi solo degli aspetti tecnici della loro professione e di curare la malattia senza prestare ascolto alle istanze della persona; dall'altro gli appelli alla capacità e al dovere del medico di ascoltare, di curare la persona e non la malattia, di guardare ai problemi della salute con un respiro olistico, globale e quant'altro. Pur condividendo l'intenzione di fondo che ispira tali inviti, credo che sia sbagliato o, quanto meno, poco efficace lasciare solo alle buone intenzioni dei medici il compito di mediare. In altre parole, fare continui appelli ai buoni sentimenti e al senso etico del medico è una soluzione debole del problema. Anzi diciamo proprio che non è una soluzione; anche perché lascia - ancora una volta - il medico solo coi suoi problemi e coi suoi conflitti. Indifeso, ogni volta che le linee guida della sua scienza non sono in accordo con la sua coscienza. La dimensione biologica e biografica che definiscono l'unità della persona devono essere riunite teoricamente. E questa unità deve essere il presupposto fondante dell'epistemologia medica. In altre parole, il medico deve avere alle spalle, come solido strumento di riferimento, una teoria che preveda che rivolgendosi al corpo biologico, ci si rivolge, istantaneamente e simultaneamente, anche al corpo biografico. Una teoria che sancisca che il corpo biografico comprende il biologico. E lo comprende non tanto nel senso che ne è il contenitore, ma nel senso che il corpo biografico altro non è che un corpo biologico contestualizzato, cioè che vive nel suo spazio-tempo. Se il corpo biologico è un essere vivente, quello biografico è un esser-ci; cioè un corpo biologico vivente nella sua dimensione storica. L'unica possibile dimensione nella quale egli stesso può attribuire significato ai suoi vissuti e riconoscerli come gli eventi di gioia e di sofferenza che danno corpo alla sua vita. La salute e la malattia, quindi, non sono due polarità opposte, in reciproca esclusione, del processo della vita, ma sono la dinamica nella quale quello stesso processo consiste e con la quale comunica attraverso il suo significare, cioè si esprime. Sembrerebbe logico, quindi, che di fronte al progressivo emergere di questa consapevolezza - negli ultimi trent'anni in modo sempre più strutturato e articolato - le "medicine naturali" (mi si passi l'espressione) fossero entrate in questo dibattito alimentandolo, valorizzando le riflessioni di maggiore spessore culturale comparse nella letteratura e producendo o incoraggiando esse stesse contributi di valore sul piano "teorico" per costruire quella cultura clinica comune nella quale potersi tutti riconoscere. Purtroppo, però, sembra che la medicina nel suo complesso abbia dimenticato le sue più genuine origini filosofiche e che abbia abdicato al suo dovere di dare un serio e profondo contributo a questo genere di riflessioni. Riflessioni che riguardano quel sapere dell'uomo intorno a se stesso in base al quale l'uomo utilizza gli strumenti che il sapere tecnico-scientifico gli ha consegnato nei secoli e nelle varie culture. Molti dei problemi odierni della sanità nascono da questo genere di carenza. Le varie scuole di medicina naturale non hanno colto - perlomeno nei fatti - l'importanza fondamentale di questo aspetto e non hanno mai investito energie in questo dibattito né hanno mai raccolto alcun invito a farlo. Forse può sembrare una valutazione eccessivamente severa, ma le aperture alla medicina naturale alle quali oggi in alcuni casi assistiamo non vanno certo in questa direzione. Ove si verificano - almeno in molti casi - consistono sostanzialmente in un processo di acquisizione di alcune sue tecniche nell'ambito delle procedure dell'attuale organizzazione sanitaria. Intendiamoci, è uno sforzo comunque positivo e che rappresenta un arricchimento sul piano delle possibilità strumentali di cui pazienti e medici possono disporre (mi riferisco, per esempio, ai lavori in corso in diverse Regioni italiane per validare alcune tecniche complementari di terapia), ma l'arricchimento - insisto - è sostanzialmente sul piano tecnico/quantitativo e non culturale/qualitativo. Infatti, chi è da sempre ostile a questo genere di terapie, continua ad esserlo e continua a manifestare il suo dissenso, spesso alimentato da preconcetti. Peraltro, la spesa pubblica continua a salire e le strategie di contenimento prevedono solo tagli degli sprechi (sacrosanti laddove ci sono), linee guida sempre più "severe" e, come forse qualcuno spera, l'arruolamento di qualche terapia naturale a basso costo. Ma, per quanto si cerchi di razionalizzare le risorse, è l'impostazione "teorica" del sistema a condurre inesorabilmente verso la bancarotta. La reificazione della malattia e l'ideologia scientista della medicina, hanno prodotto un intreccio di spericolate conflittualità di interessi fra medicina, politica, ricerca scientifica e aziende, che produce e rinforza quell'impostazione tecnicistica del pensare e dell'agire medico che è il fondamentale responsabile di una spesa sanitaria in costante e inevitabile aumento esponenziale. Ecco perché le attuali strategie di contenimento dei costi della sanità, sostanzialmente, sono destinate al ruolo dell'antipiretico per far scendere la febbre. Tale strategia, peraltro, sta conducendo a una intollerabile burocratizzazione del sistema sanitario e delle sue procedure che genera spesso ulteriori (e costose!) disfunzioni, riduce nei medici giorno per giorno la motivazione e la passione per il proprio lavoro, riduce sempre di più il tempo che il medico può dedicare alla relazione col malato. L'attenzione alla persona rischia di venire confinata unicamente nelle incombenze relative all'applicazione delle norme riguardanti il problema del consenso informato e del rispetto della privacy. Una serie di procedure che - nonostante la sacrosanta correttezza del principio - hanno di fatto assunto unicamente i contorni di una burocrazia difensiva che non protegge né il medico né il paziente, ma che genera spesso in quest'ultimo solo perplessità e sospetto. Ecco perché per uscire da questo tunnel occorre un'inversione di marcia sul piano dell'impostazione teorica della medicina, in grado di "rimettere la persona al centro" delle procedure medico-sanitarie, in modo sostanziale e non solo formale. Rimettere la persona al centro, in altre parole, dev'essere la mission di un progetto culturale in grado di mobilitare trasversalmente le risorse umane necessarie a ridisegnare sotto questa nuova luce i percorsi di diagnosi e cura, individuare strategie diagnostiche e terapeutiche più articolate e personalizzate, far emergere i valori e i contenuti di una nuova cultura clinica per la formazione dei futuri medici. In questa sede ci limitiamo solo a segnalare che le basi culturali da cui partire per sviluppare una cultura clinica centrata sulla persona, già esistono e sono in grado di mostrare la loro efficacia laddove vengono applicate. Ciò che occorre adottare è uno sguardo clinico di tipo sistemico. Uno sguardo che fa esplicito riferimento alla Sistemica come a quell'ambito di pensiero che, iniziato da Ludwig von Bertalanffy (1969), si è evoluto nel mondo grazie al lavoro e al contributo di scienziati e filosofi del calibro di Prigogine, Bateson, Maturana, Varela, Morin, Capra, Goodwin e molti altri. Uno sguardo sull'uomo e sulle sue relazioni che ha preso corpo in teorie, metodi, scuole, istituzioni accademiche e organizzazioni, che danno corpo oggi alla cultura della complessità (vedi: http://www.airs.it/). Una cultura già viva e vitale in molti campi, dalla fisica all'economia, dall'ingegneria ad alcune scuole di psicopatologia e di psicoterapia, dalla matematica alla biologia. Una cultura che - coniugando flessibilità e rigore metodologico - può indicare nuovi spunti teorici e applicativi per la riumanizzazione della nostra medicina (Ricciuti, 2001; 2004).

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