Tumore del seno:lo spazio umano tra malato e medico
a cura di Salvo Catania
Nelle professioni sanitarie sempre più spesso ci si
confronta con malati che soffrono di patologie che
alterano in modo drastico, e talvolta definitivo, la
prospettiva futura della persona che ne è affetta.
Il tumore del seno è l’esempio più emblematico di
malattia che, per le sue implicazioni psicologiche
emotive e simboliche, è in grado di destabilizzare il
più solido degli equilibri di chi si ammala.
Ma nonostante le modificazioni epidemiologiche e
culturali degli ultimi decenni, in relazione al
desiderio sempre più marcato da parte dei pazienti di
voler sapere per condividere le decisioni terapeutiche,
manca ancora una riflessione, o meglio una definizione
sistematica, specifica e operativa, relativa a queste
tematiche. Tutto ciò mentre la medicina diventa sempre
più scienza tecnologica, con il progressivo inevitabile
distacco tra medico e paziente.
Paradossalmente, la conoscenza e l’approfondimento della
natura di molte malattie hanno portato ad una sorta di
dualismo, tale per cui molti medici considerano la
malattia il lato oscuro della vita, fonte di ansie e
pregiudizi, un nemico da combattere e vincere ad ogni
costo, in quanto disfunzione della macchina corporea,
indipendente dalla persona in cui si manifesta.
Al contrario l’aspettativa del malato, o potenziale
malato, è avere accanto una persona che sappia non solo
interpretare segni e sintomi, ma anche ascoltare per
mettersi in sintonia. Una persona, che sappia insomma
“comunicare” e non soltanto informare.
La radicalizzazione di questa visione meccanicistica
della medicina ha invece portato in molti casi ad una
vera incomunicabilità, caratterizzata da un lato da
medici insofferenti nei confronti dei pazienti che
vogliono sapere sempre di più e dall’altro da un rifiuto
del ruolo paternalistico recitato da questi medici .
Recentemente, questa frattura del rapporto fiduciario ha
cercato una soluzione legislativa nel cosiddetto
consenso informato: ogni atto medico diagnostico e
terapeutico deve essere comunicato al paziente,
controfirmato da entrambi e figurare sempre nelle
cartelle cliniche. Ma si tratta di una soluzione
apparente.
In realtà questo strumento ha accentuato la
conflittualità, piuttosto che stemperarla, perché non è
stato interpretato come attenzione di garanzia e
chiarezza nei confronti del malato, ma come uno
strumento per mettersi al riparo da possibili
contestazioni, che non a caso sono diventate sempre più
frequenti.
Non è certo compito mio risolvere una questione così
impegnativa , ma posso cercare di stimolare la
riflessione e il dibattito su un tema troppo a lungo
rimosso dalla letteratura scientifica e medica, la
quale, d’altra parte, ha l’attenuante di non avere
ricevuto nozioni scolastiche sufficienti per delineare
strategie finalizzate a migliorare capacità comunicative
e di ascolto.
In molti percorsi di studio, infatti sono state
intenzionalmente messe al bando le
emozioni.
Soffocare le emozioni trova due giustificazioni: la
capacità di mantenere la calma per prendere decisioni e
la professionalità del comportamento. Questa scelta ha
generato una classe di operatori sanitari spesso
impreparata ad affrontare un colloquio che preveda la
comunicazione di una cattiva notizia, mentre si
pretende invece che il medico debba sapere cosa dire in
ogni occasione e si è a torto convinti che il suo
prestigio sia proporzionale alla quantità di risposte
che è in grado di fornire.
Molte sono le cause del disagio che provano i
professionisti della salute quando sono chiamati a dare
a un paziente una cattiva notizia. Tutti, intanto, siamo
d’accordo che non sia facile dare cattive notizie.
Alcuni sentimenti di inadeguatezza e di imbarazzo sono
addirittura precedenti al colloquio con il paziente e
sono legati al modo con cui la società considera la
malattia (fattori sociali). Non possiamo,infatti, negare
che anche il medico appartiene ad una società in cui
grandissimo valore è attribuito alla giovinezza, al
benessere e alla salute. Ed è chiaro che il prezzo di
questa cultura è pagato da coloro che non possiedono
questa cultura : i poveri, gli anziani e soprattutto i
malati.
Più importanti sono i fattori relativi al paziente,
generati dal suo sconforto e dalla conseguente, quando
c’è, risposta empatica del medico. Tutti e più volte
abbiamo sperimentato quanto sia difficile comprendere in
pochissimo tempo le dinamiche profonde della vita di
ogni singolo paziente e valutare l’impatto
destabilizzante che esse hanno con la malattia..
Altri importanti fattori sono legati alle paure
personali e al training professionale del medico. Per
esempio, durante la nostra formazione, impariamo a
lenire il dolore o annullarlo del tutto con anestetici,
mentre non siamo preparati all’idea di generare dolore
somministrando cattive notizie o, peggio, sentenze di
morte.
Ma la ragione principale del nostro imbarazzo e senso
di inadeguatezza deriva dal fatto che i medici sono
stati rigorosamente educati a riferirsi a linee-guida ;
nel caso non ve ne siano, come per la comunicazione di
cattive notizie, sono comprensibili il disagio e la
tendenza, interpretata a torto come insensibilità, a
evadere, se non proprio a evitare completamente, il
compito in questione.
Sempre in relazione alle paure del medico, un aspetto di
non secondaria importanza va attribuito al fatto che
imedici, come i messaggeri di cattive notizie, siano
esposti ai sentimenti di rabbia dei pazienti. Non si
tratta di un atteggiamento voluto e consapevole, ma di
un effetto collaterale e secondario al fatto che la
medicina moderna ha alimentato l’illusione di
“onnipotenza”, cioè che ci sia una terapia efficace per
ogni malattia e che, di conseguenza, ogni fallimento
terapeutico sia attribuibile a errori del sistema
sanitario o dello staff medico.
Fattori relativi all’atteggiamento del medico che
condizionano la comunicazione
___________________________________________________________
-
paura di generare dolore
-
paura di sentirsi accusati (aspetti medico-legali;
fallimento terapeutico)
-
paura di ciò che non è stato insegnato
-
paura di dire “non so”
-
paura di esprimere emozioni
-
paura della gerarchia medica
-
personali paure della malattia/morte
-
solidarietà nella sofferenza
Mentre oggi non ci sono dubbi che capacità comunicative
e di ascolto possono essere apprese ed applicate, negli
anni 70, quando è nata l’associazione Attivecomeprima,
le uniche capacità richieste al medico erano quelle
diagnostiche al letto del malato. Poiché, come abbiamo
visto, questo tema era stato rimosso dalla letteratura
medica, pochissimi dati in merito esistevano in quel
decennio.
Da quelli esistenti si evince però che in Italia
l’80-90 per cento dei medici riteneva di non dover
riferire la verità ai propri pazienti affetti da tumore.
In quel periodo venivano addirittura pubblicati testi
che riportavano strategie apposite per evadere o deviare
il discorso nei casi, veramente sporadici, di pazienti
che chiedevano di saperne di più.
Questo atteggiamento, interpretato oggi come disumano,
era fondato in realtà sulla convinzione che la verità
avrebbe potuto danneggiare il paziente e che la
conoscenza della reale situazione avrebbe annullato
speranze e residue motivazioni. Ma era anche l’epoca in
cui il cancro era una malattia di cui ci si doveva
vergognare; infatti le pazienti sollecitavano
rassicurazioni prima di tornare a casa dall’ospedale
sulla contagiosità della malattia. Un pregiudizio
talmente forte da essere pervenuto sino ai nostri
giorni.
In questo clima, non certo esaltante, si registravano in
campo oncologico (quasi sconosciuto il termine senologia)
due eventi che mi permetto di definire rivoluzionari ,
in Italia e, il secondo nel mondo.
Per la prima volta una giovane donna , Ada Burrone,
riconosce, fatto clamoroso, la sua condizione di donna
mastectomizzata anzi ipermastectomizzata (perché si
trattava di una mastectomia allargata) e chiama a
raccolta altre donne di pari condizioni.
Tutto ciò mentre il tumore del seno subiva un radicale
rinnovamento diagnostico e terapeutico, dopo essere
stato considerato sino a metà del secolo scorso come
incurabile : le poche guarigioni erano, infatti,
ottenute al prezzo di dolorose mutilazioni e di terapie
radiologiche aggressive e invalidanti. Per la verità
c’erano stati vari tentativi in Europa, tutti falliti,
di sostituire l’intervento ablativo del seno con metodi
conservativi.
Proprio nel 1973, anno di fondazione di Attivecomeprima,
l’Istituto dei Tumori presenta il
Trial Milano I,
che si concluderà nel 1980. Il trial confrontava un
campione di pazienti trattate con mastectomia con un
campione di pazienti trattate con quadrantectomia e
radioterapia. Questo studio, che può essere considerato
la pietra miliare della moderna chirurgia della
mammella, fu fortemente voluto contro tutto e tutti.
Basti pensare al fatto che, inizialmente,
l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva respinto il
progetto presentato da Umberto Veronesi perché non etico
e che, contemporaneamente, fu manifesta l’ostilità della
maggioranza di chirurghi e radioterapisti di tutto il
mondo, terrorizzati all’idea che si potessero infrangere
i classici dogmi halstediani, su cui avevano fondato la
propria cultura oncologica.
Pertanto non fu un caso se, in questo clima, ho avuto la
fortuna di incontrare Umberto Veronesi, Bruno Salvadori,
il “mago” della diagnostica clinica Sergio Di Pietro e,
subito dopo Ada e l’associazione ,che allora aveva la
sede presso l’Istituto, ma una esigenza incontenibile
che mi spingeva, giovane e inesperto chirurgo, a
completare un training professionale.
In quel momento ero consapevole che, al mio desiderio
naturale di aiutare gli altri , la facoltà di Medicina
aveva contrapposto l’insegnamento a mantenere la
distanza dal paziente. Pertanto quando nel 1976 per la
prima volta varcai la soglia di Attivecomeprima, sapevo
già cosa cercare, anche se non potevo ancora immaginare
cosa mi sarebbe accaduto, quando Ada mi avrebbe mandato
allo sbaraglio a confrontarmi con le donne operate.
In questa fase ho conosciuto Rita una delle prime
fiduciarie dell’associazione . giovane, carina, operata,
sorrideva sempre…ma registrava tutti i miei incontri con
le donne e, dopo pochi giorni, mi faceva implacabilmente
pervenire una montagna di cartelle dattiloscritte con le
infuocate osservazioni sulle cose che avevo detto e che
l’avevano spaventata.
Solo dopo un lungo periodo, quando ormai avevo deciso di
occuparmi d’altro, ritenendomi non idoneo in e per quel
ruolo, constatando che il fiume delle cartelle di Rita
si era ridotto ad un rivolo, ho avuto per la prima volta
la consapevolezza di avere imparato molto sulla vera
natura della professione medica. Da allora ho continuato
per quasi un trenta anni i cosiddetti gruppi del
venerdì, identificati in una mia monografia come
“dottore si spogli”. A questi incontri di gruppo
partecipano donne che, generalmente, si rivolgono
all’associazione dopo l’intervento, o vi giungono nel
corso delle terapie adiuvanti complementari.
Inizialmente chiedono solo informazioni su alcuni
aspetti della malattia. In realtà è un pretesto per
esprimersi; infatti, già in questa fase cercano una
figura particolare di medico che in associazione non
visita e quindi si “spoglia del camice”. Della sua
tecnologia e soprattutto del suo incomprensibile
linguaggio “medichese”. Cercano quindi non il tecnico ,
non lo scienziato, ma un alleato disponibile a fare da
punto di riferimento durante i vari momenti dell’iter
diagnostico e terapeutico, di solito vissuti come privi
di nesso tra loro, motivo questo generatore di ansie. In
questi gruppi il medico viene mandato allo sbaraglio
perché i pazienti che ne fanno parte presentano
differenti stadi della malattia e diversamente trattate
; sono presenti sia quelle trattate in fase precoce che
tardiva della malattia. L’informazione quindi non può
essere di tipo tradizionale, che tranquillizzerebbe
alcune, ma è chiaro spaventerebbe le altre.
Diventa , pertanto, inevitabile per il medico spostare
il baricentro su un tipo di comunicazione che privilegia
alcuni aspetti che, se non rigorosamente scientifici, si
accompagna a vantaggi e ad attestati di gradimento
collaudati da quasi 30 anni di esperienza.
Per esempio si discute di stato dell’arte di alcune
terapie, ma queste non vengono considerate come l’unica
risorsa disponibile. In altre parole, si cementa la
speranza che, grazie alle proprie difese, soprattutto
grazie allo stile di vita, ci sia la possibilità di
difendersi dal cancro, a prescindere dalle terapie: in
questo modo l’aggressione non viene subita passivamente.
Dando, inoltre, la possibilità di esprimersi, si rende
concreto il cancro che seppur temibile perde i connotati
di fantasma che tormenta e rincorre.
Si dà poi una finalità alle terapie in corso, in
particolare la chemioterapia, che è la più temuta e si
motivano i suoi effetti collaterali.
D’altro canto anche il medico in questi incontri
arricchisce la sua professionalità perché, potenziando
la capacità di ascolto, finisce per modificare il
proprio modo di concepire il cancro, fatto di numeri e
statistiche, che pur si devono conoscere, fino a
muoversi su un piano soggettivo fatto di emozioni e
storie di persone.
Ma ciò che in questi incontri , nell’arco di un
trentennio, ha radicalmente cambiato il mio modo di
essere medico è stato l’incontro (frequentemente
scontro) con i pazienti cosiddetti eccezionali.
Chi sono i pazienti eccezionali ?
Sono individui da sempre normali, nei quali il desiderio
di vita si esprime nel modo più forte.
Essi, alla scoperta di una malattia grave, si assumono
la responsabilità della loro vita, anche se prima non ne
erano stati capaci, e si impegnano a riacquistare la
salute e la serenità perduta.
Sanno che su questa terra il tasso di mortalità è del
100 per cento.:sanno cioè che la vita non dà garanzie.
Ne accettano quindi i rischi e le sfide. Si sentono
soprattutto padroni del proprio destino e, per tale
ragione, non lasciano tutta l’iniziativa al medico,
poiché preferiscono costituire insieme a lui una sorta
di società, o di alleanza , con il patto reciproco di
dare il meglio di sé: e , in comune a tutti i pazienti
pretendono solo, si fa per dire, la tecnica e la
competenza, l’apertura mentale e, naturalmente ,
l’impegno.
Fonte:
LO SPAZIO UMANO
TRA MALATO E MEDICO
(introduzione di
Umberto Veronesi)
2005 Roma
Il Pensiero
Scientifico Editore
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