Dottore, si spogli.....
a cura di Salvo Catania
Ho
incontrato Ada e l'associazione Attivecomeprima circa
trent'anni fa, in un momento in cui come medico, ero
motivato a guarire tutti ad ogni costo e, di
conseguenza, avvertivo come una sconfitta o addirittura
come un vero fallimento l' eventuale perdita di un
paziente.
Da Ada, ricevetti un messaggio molto semplice ma che
avrebbe cambiato la mia concezione di medico: nessuno di
noi su questa terra può sostituirsi a Dio, tanto più che
nessuno ci ha chiesto di farlo.
Non fu il caso a farmela incontrare, ma una esigenza
incontenibile che mi spingeva, giovane e inesperto
chirurgo, a completare un processo di addestramento
professionale.
Ero consapevole che al mio desiderio naturale di aiutare
gli altri, la facoltà di medicina aveva contrapposto
l'insegnamento a mantenere la distanza dal paziente,
piuttosto che fornirmi indicazioni sul modo migliore per
comunicare con una persona ammalata.
Per la verità io potevo considerarmi uno studente di
medicina "fortunato" perché proprio nella fase di
formazione professionale avevo avuto modo di toccare con
mano la paura, il senso di disagio, l'isolamento e la
perdita di controllo che sperimentano i pazienti coi
loro familiari quando sono consapevoli di essere stati
colpiti dal cancro. A me e non a mia madre direttamente,
venne comunicata la sentenza di morte per cancro
dell'utero.
Mia madre, che in realtà non morì di cancro, ebbe quella
sentenza come "verità assoluta" da un giovane e
preparato medico sempre sorridente e sempre pronto a
dire un niente affatto tranquillizzante "non si
preoccupi signora".
Senza dubbio era garbato e gentile, ma con il pretesto
di avere "tanto da fare a curare le malattie" in realtà,
atterrito, sfuggiva il mio sguardo che lo inseguiva per
i corridoi dell'ospedale.
In tale circostanza ebbi la netta percezione che quando
un medico parla di "verità" e si pone il problema se
dirla o no, si tratta quasi sempre di cattive notizie, o
comunque di qualcosa verificato con una indagine cito
istologica, con gli ultrasuoni o con i raggi X.
Anche se queste "verità" sono esatte (il che non sempre
si verifica), sono solo una parte di ciò che il malato o
il familiare percepisce rispetto al cancro.
Se si vuole infatti che la "verità" abbia un uguale
significato per entrambe le parti, è indispensabile che
il medico parli CON un malato e non AD un recettore
passivo.
Per tale ragione, ripensando in seguito al giovane e
garbato medico, ho convenuto con Franz Kafka che "è più
facile dare una prescrizione che capire la gente".
In tale circostanza, sperimentai con il mio primo
paziente, mia madre, altre forme di comunicazione non
verbale, trovando naturale il contatto fisico come la
forma più elementare di comunicazione.
Ma soprattutto fantasticando sulla sua imminente perdita
e persino sui suoi funerali, cominciai ad avere una
maggiore consapevolezza di me, delle mie paure e delle
mie sensazioni: oltre ad elaborare la morte di mia madre
fu inevitabile ammettere che "allora anch'io potevo
morire".
Solo più tardi mi sarei reso conto del valore di tale
acquisizione.
Quando, per la prima volta, varcai la soglia di
Attivecomeprima, sapevo già cosa cercare. Non conoscevo
questi "esseri" che, in un'epoca in cui il cancro era
qualche cosa di cui ci si doveva vergognare, chiamavano
a raccolta altre donne di pari condizioni.
Ho conosciuto Rita, bionda, giovane, carina. Sorrideva
sempre, registrava i miei incontri del venerdì con le
donne operate e dopo tre quattro giorni mi faceva
pervenire un plico di cartelle dattiloscritte, con le
infuocate osservazioni sulle cose dette da me e che
l'avevano spaventata.
Dopo alcuni anni, quando ormai avevo deciso di occuparmi
d'altro, Rita mi aiutò ad uscire dalla crisi, riducendo
le cartelle dattiloscritte a pochi fogli, restituendomi
la consapevolezza di avere imparato molto sulla vera
natura della professione medica.
Anna, operata da me e relegata inconsciamente dal mio
modo oggettivo di concepire il cancro, tra le donne
destinate a morire in breve tempo, presentava una
prognosi infausta: questa però era solo la "mia" verità
assoluta, quella biologica, che veniva desunta da un
certo numero di elementi che erano stati studiati
statisticamente, anche se ve ne erano altri ugualmente
importanti, neanche oggi sufficientemente conosciuti.
Essa, sin dal primo giorno, aveva richiesto la mia
attenzione occupandosi poco delle mie verità oggettive,
che venivano annualmente smentite e commentate da lei
con un grande senso di umorismo.
Per dodici anni, mentre ero portato a vedere solo la sua
malattia, Anna mi spiegava pazientemente che questa
rappresentava solo uno degli aspetti della sua persona e
della sua vita.
Inevitabilmente ogni conversazione, sempre più rara
sulla sua malattia (cellule, recidive, metastasi...) si
spostava automaticamente su alcuni aspetti soggettivi:
paure, sensazioni, problemi familiari e... il suo cane.
Dopo Anna, centinaia, forse migliaia di altre pazienti,
hanno arricchito la mia esistenza grazie alla
trasmissione della loro saggezza nell'esperienza
derivata dalla malattia. Parecchie di loro lo hanno
fatto per iscritto, dandomi la possibilità di
raccogliere molte delle loro osservazioni in un volume
("Carcinoma mammario dalla parte della paziente" 1989).
Conservo per me, invece, alcune lettere di familiari di
pazienti decedute, che mi provocano ancora una emozione
indescrivibile: loro ed io sappiamo bene, che paziente e
medico hanno fatto del loro meglio e la morte non
rappresenta una sconfitta o il fallimento di una cura.
Essere rassicurati dalla comprensione dei familiari non
è privilegio di poco conto, se pensiamo al ruolo
tradizionale del medico, caratterizzato da un esasperato
senso del dovere, che è causa di continui dubbi e che
porta a sentirsi responsabili al di là delle possibilità
umane e, parafrasando Larry Leshan "a giocare a fare i
padreterni senza averne le qualità".
In letteratura sono stati proposti diversi modelli di
comportamenti del medico (paternalistico, informativo,
interpretativo, deliberativo...). La mia esperienza
personale ad Attivecomeprima e all'interno
dell'istituzione ospedaliera, mi ha portato a incontrare
migliaia di donne, ciascuna con una propria storia e un
proprio modo di affrontare la malattia e la vita in
genere.
Non mi è tuttavia possibile proporre un modello ideale
di comportamento. Negli ultimi anni, amplificando la
capacità di ascolto, pur nel riconoscimento dell'unicità
di ciascun individuo, sono stato in grado di evidenziare
alcuni punti generali, che mi sembrano fondamentali, da
cui la relazione medico/paziente non può prescindere.
Le donne considerano indispensabili, per quanto attiene
al medico, gli aspetti di sicurezza, competenza e
sincerità, che generalmente emergono nel primo colloquio
o in quello decisivo in cui si deve comunicare la
"sentenza di morte".
Nel corso o alla fine di questo colloquio, con la
assoluta determinazione e apparente irrazionalità che
caratterizza il colpo di fulmine in amore, la paziente
sembra arrendersi alla volontà del medico. In realtà è
sempre la donna in piena autonomia, che decide da chi
"farsi mettere le mani addosso", dopo avere consultato,
mediamente, almeno due specialisti.
Non sempre esistono le condizioni perché questa
comunicazione si verifichi in un ambiente calmo e
tranquillo e non sempre il medico è in grado di dedicare
una quantità di tempo adeguata ad un colloquio di tale
importanza.
Mi sono reso conto, per fortuna, che occorre lo stesso
tempo sia per parlare in modo freddo e incomprensibile,
magari lavandosi le mani dando le spalle alla paziente,
sia per condurre un discorso in modo umano,
comprensibile e colmo di empatia, guardando negli occhi
la paziente.
Il giovane e garbato medico curante di mia madre, se
avesse fatto ricorso alle sue doti di umanità, che pur
possedeva, avrebbe potuto identificarsi con il
sottoscritto e porsi dal mio punto di vista.
Mi rendo conto tuttavia che, nonostante si tenti spesso
di utilizzare un linguaggio comprensibile, il paziente,
per ovvi meccanismi di difesa, tende a fraintendere, a
rimuovere, a dimenticare.
È necessaria quindi una grande disponibilità a ripetere
la comunicazione.
Il colloquio è talvolta più semplice se la paziente è
accompagnata da una amica o da un familiare. Tale
situazione si verifica però meno frequentemente, perché
le donne tendono a venire da sole.
D'altra parte, la presenza di una seconda persona
costringe ad aprire un secondo canale di comunicazione e
può complicare anziché semplificare una situazione già
in sé difficile.
Ciò è vero soprattutto quando non vi è sintonia nel modo
di percepire la comunicazione e si rende necessario
adattare il discorso a due modi di "sentire" differenti.
Un altro punto fondamentale riguarda le nostre
valutazioni su quello che è stato comunicato o fatto in
precedenza da altri colleghi. Mi impongo infatti di
considerarlo nel modo migliore, anche se non sempre è
facile, per evitare che un eventuale ritardo diagnostico
possa essere vissuto negativamente dalla paziente e che
questa finisca per colpevolizzare se stessa per errori o
omissioni di altri.
Io dedico parte del colloquio alla raccolta dei dati
anamnestici della paziente non tanto legati alla
malattia, quanto alla storia personale e familiare. Già
in questa fase, gli occhi abbassati, le mini tremanti,
le parole balbettate, sono segni potenziali di ciò che
preoccupa realmente la donna.
Ad essi do la stessa importanza dei sintomi da lei
descritti, poiché buona parte della comunicazione in
questo colloquio, non è verbale.
Non sono in grado di proporre una rigida scheda
anamnestica, tuttavia i miei oggetti primari di indagine
sono:
1) la famiglia: l'età dei figli e del coniuge è un
elemento importante per comporre il nucleo familiare,
identificando eventuali anelli forti di riferimento o
anelli deboli (es. figlio drogato o coniuge malato).
Anche la presenza di bambini piccoli comporta una
maggiore attenzione perché maggiore sarà la paura della
madre di lasciarli in tenera età.
La presenza di un genitore anziano non autosufficiente o
addirittura costretto a letto, induce la paziente a
chiedere più rassicurazioni per la funzionalità delle
sue braccia, che per la sua vita.
Se la paziente ha uno o più parenti stretti ammalati di
cancro, ha fatto le sue esperienze con questa malattia,
nel senso che sa, meglio di me, cosa vuol dire vivere
con essa.
Per tale ragione, io cerco di ascoltarla attentamente
prima di sfornare battute trionfalistiche sulla
curabilità della malattia.
2) Il livello culturale, le condizioni economiche, il
lavoro, la religione ed altro.
In questa fase mi impongo di dare spazio alla paziente
senza interromperla. Tutto quello che viene detto è
importante per capire la sua situazione di vita, così
come è pure importante cogliere i segnali che vengono
inviati e che rivelano altre paure oltre a quelle
generate dalla malattia.
Una paziente disoccupata sarà angosciata sia
dall'eventuale costo delle cure, sia dal timore di non
poter più trovare un lavoro.
Con le pazienti che manifestano una fede religiosa è più
facile definire il ruolo del medico curante e
distinguerlo da quello del medico-guaritore.
Per cementare la relazione, ho l'abitudine di comunicare
non solo il numero di telefono dell'ospedale, ma anche
quello di casa. Quasi mai il paziente abusa di quest'ultimo.
Le rare volte che è successo ho proposto ad ogni
telefonata un incontro "vis a vis" in ore impossibili:
nel giro di dieci-quindici giorni ho risolto il
problema!
Il fatto di avere il numero di casa del medico (e non
solo del suo studio) costituisce per la paziente un
importante punto di riferimento e una fonte di
sicurezza.
In Associazione, e dalle donne, ho imparato che
identificandosi nell'altro, si può riuscire a
banalizzare il problema per sdrammatizzarlo.
Sono sempre consapevole però che con la banalizzazione
si corre il rischio di minimizzare (il problema) e di
non permettere alla paziente di fare emergere le sue
paure e i suoi fantasmi di morte.
Mi trovo talvolta costretto a "rimediare" spostando la
comunicazione sui familiari, se presenti, facendo
emergere il concetto di morte per esorcizzarlo con frasi
che instaurino un'atmosfera più rilassante.
Mi ricordo che, rivolto ai familiari, più di una volta
ho utilizzato la frase: "con questa malattia non
riuscirete a liberarvi di lei...".
Una paziente mi ha riferito che Umberto Veronesi le
aveva detto: "lei ha le stesse probabilità di venire ai
miei funerali che io ai suoi". Frasi come quest'ultima,
in cui non solo non viene rimosso il concetto di morte
della paziente, ma ad esso viene anteposto addirittura
quello del medico, ristabiliscono una condizione nella
quale "la sgradevole verità" assume lo stesso
significato per entrambe le parti.
Molto spesso mi accorgo che parte dell'informazione che
do è eccessiva e la paziente finisce con il ricevere più
informazioni di quanto sia capace o desiderosa di
sopportare.
Purtroppo non è sempre facile capire il grado di bisogno
di informazione di ogni persona. Mentre alcune esitano a
chiedere, altre manifestano un atteggiamento che mi
induce a pensare che desiderino maggiori particolari
mentre è vero il contrario.
Spesso nella mia esperienza, il solo fatto di dare
risposte soddisfacenti, funge da elemento di
incoraggiamento per la paziente che si sentirà
autorizzata a porre domande su quello che la riguarda.
Per esempio il poter proporre una chirurgia
conservativa, sicuramente costituisce una informazione
positiva; così comemolto apprezzata l'esigenza
manifestata dal chirurgo, dopo: l' avvento della
chirurgia conservativa, a valorizzare un organo che
prima veniva sistematicamente sacrificato.
Se non altro, questa "esigenza tecnica" viene
interpretata dalla paziente come un atto di rispetto
alla persona nella sua globalità.
D'altra parte non deve stupire che almeno nella prima
fase della relazione, il problema estetico che riguarda
il seno sia una esigenza sentita, più dal chirurgo che
dalla paziente, la quale non ha avuto ancora il tempo di
fare emergere le proprie paure derivate dalla recente
scoperta di avere un cancro.
È quindi necessario lasciarle un tempo sufficiente
perché la verità sia assorbita, prima di affrontare
argomenti che probabilmente, in quel momento, verrebbero
vissuti come una sottovalutazione della tempesta emotiva
provocata.
Se è più facile esorcizzare il cancro e la morte, perché
la stessa paziente mi aiuta verbalizzando le sue paure,
un discorso a parte deve essere fatto per l'eventualità
delle metastasi.
La metastasi è temuta più della morte, perché può
significare lunga e interminabile sofferenza; la morte
invece nel vissuto di pazienti che hanno avuto un
familiare affetto da cancro, è sentita addirittura come
liberatoria: la "dolce" fine alle sofferenze.
Quando una donna si rivolge a me scegliendomi come suo
medico, perché ha notato una anomalia al seno, ha inizio
una storia nella quale sarà sempre lei ad essere il
soggetto principale e non l'eventuale malattia.
In qualità di medico mi dispongo ad essere per lei, se
esprime questo desiderio, un punto di riferimento
costante durante i vari momenti specialistici dell'iter
diagnostico e terapeutico, solitamente vissuti come
privi di nesso tra loro, motivo questo generatore di
ansie.
Mentre si procede nel programma terapeutico vero e
proprio, cerco di colmare, con informazioni date in un
linguaggio accessibile privo di connotazioni tecniche, i
vuoti di comunicazione che si creano fra la paziente e
la struttura ospedaliera, e quelli che derivano dal
sentirsi soli di fronte alla malattia.
Risultato terapeutico, rapporto tra medico e paziente,
valori della persona che viene operata, si sovrappongono
e si amalgamano grazie ad una comunicazione che non
passa solo attraverso la sintomatologia organica.
Nonostante tutto ciò, il cancro per la paziente, resta
una entità vaga, non ben definita. È furtivo, sfuggente
e la visione della malattia continua ad essere colorata
di miti e di fantasie negative.
Per questa ragione, utilizzando un fantoccio di silicone
le permetto di "toccare il cancro". Più frequentemente
però lo "disegno": su un foglio schematizzo l'organo
ammalato, i linfonodi a difesa dell'organo stesso ed
eventuali vasi sanguigni in cui "accidentalmente"
potrebbero formarsi piccoli emboli metastatici.
Spiego che il nostro organismo è capace di difendersi
dallo sviluppo di eventuali metastasi; che il formarsi
di cellule cancerose nel nostro corpo è un fenomeno
molto più frequente di quanto si creda e che di norma
viene dominato attivamente dalle nostre difese.
Nel caso che un tumore si sia instaurato, può essere
utile una terapia complementare diretta contro il tumore
o ad aiutare le nostre difese. Questo mi aiuta a
rispondere, senza mentire, a quelle donne che mi
chiedono il perché delle terapie complementari
(chemioterapia...). A questo punto ci sentiamo più
alleati perché la lealtà nella comunicazione ci ha
permesso di condividere la paura del dramma, per poterlo
sdrammatizzare.
Quali sono i vantaggi di questa scelta di comunicazione
che può essere considerata rigorosamente "poco
scientifica"?
-
Si cementa la SPERANZA, che grazie alle proprie
difese ci sia là possibilità di difendersi dal
cancro a prescindere dalle terapie: in questo modo
l'aggressione non viene subita passivamente.
-
Si rende concreto il cancro, che se pur temibile,
perde i connotati di fantasma che ci rincorre e ci
tormenta.
-
Si dà una finalità alle terapie che seguiranno, in
particolare la chemioterapia e si motiveranno i suoi
eventuali effetti collaterali.
-
Poiché la metastasi viene rappresentata come un
possibile"incidente di percorso", una eventuale
ricaduta ridurrà il senso di inadeguatezza e di
frustrazione dei medici abituati a dire nella fase
immediatamente post-chirurgica: "tutto a posto
signora, è tutto finito". Nella donna si attiverà la
volontà di reagire.
-
Verrà evidenziato quell'aspetto, riferito al ruolo
del medico,che le donne di Attivecomeprima hanno
sempre considerato indispensabile: la SINCERITÀ.
-
Sarà più facile illustrare in chiave ottimistica i
risultati dei tests.
A questo proposito ho ricevuto da Anna una lezione
illuminante. Le avevo appena comunicato il risultato
istologico dei suoi linfonodi, asportati nel corso
dell'intervento chirurgico, e la mia voce e il mio
sguardo "scandivano": "Anna, ti devo dare una brutta
notizia, perché BEN quattordici linfonodi su
ventiquattro esaminati, sono interessati dalle
metastasi".
Anna mi ha risposto che intendeva vivere con "SOLO
quattordici linfonodi metastatici su ventiquattro" e lo
ha fatto confortando ed assistendo centinaia di donne
che prima di lei morivano anche SENZA linfonodi
metastatici.
Gli esempi di persone che pur con una prognosi infausta
sono ancora vive, mi aiutano molto a stimolare le difese
nelle mie pazienti e continuano a dare un significato al
mio lavoro.
Talvolta mi domando se in fondo questi esempi non
servano più a me, a lenire quel senso di frustrazione
che mi accompagna per un po' di tempo, allorché io
stesso sono costretto a comunicare ad una mia paziente
che: "ci troviamo di fronte a quell'incidente di
percorso a cui facevamo cenno prima dell'intervento".
È così che potenziando l' ascolto, si finisce per
modificare il proprio modo di concepire il cancro, fatto
di numeri, di statistiche (che pur si devono conoscere),
fino a muoversi su un piano soggettivo fatto di emozioni
e di storie di persone.
Si riesce a comprendere ed accettare i sentimenti della
paziente e dei suoi familiari, senza assumere un
atteggiamento valutativo e persino a comprendere la sua
aggressività, giustificata dal fatto che quando un
essere umano sente minacciata la propria vita è portato
a reagire verso chi gli reca tale messaggio.
Io, come chirurgo, mi rendo conto dell'enorme peso
psicologico che ho sulla paziente, la quale sentendosi
in pericolo, trasferisce su di me molte di quelle
sensazioni che tutti abbiamo provato nei confronti dei
nostri genitori che ci hanno aiutato e protetto quando
eravamo piccoli.
Per tale ragione mi sento coinvolto non solo sul piano
temico, ma anche su quello umano e pur avendo molta
fiducia nelle terapie che abbiamo a disposizione, sono
convinto che il cancro, forse più di altre, è una
malattia la cui cura è più efficace se il medico è
capace di coinvolgere la paziente nella sua completezza
nel processo di guarigione.
Fonte ...e poi cambia la vita
di: Franco Angeli Editore Milano
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