Articolo di Lorenzo Cremonesi tratto da il Corriere della Sera - 8 Dicembre 2003
DAL NOSTRO INVIATO
MOPTI(Mali)
Il momento più difficile arriva verso le 12 del secondo giorno, più o meno dopo 90 km di gara, quando la temperatura
nel deserto sfiora i 45 gradi e 10 km di dune sabbiose costringono a rallentare il passo sino a ingaggiare una battaglia
con se stessi per non abbandonare.
Sarebbe così semplice accasciarsi all'ombra di un cespuglio, placare il mal di piedi, bere tutta l'acqua delle borracce
e attendere che la jeep dell'organizzazione passi a recuperare chi si ritira.
LA CRISI
Alla fine scopriremo che 49 concorrenti hanno gettato la spugna.
Tra loro gente tosta, abituata alle torture della Marathon des Sables in Marocco, gente che per i 179 km di questa
5° edizione della Desert Cup in Mali sperava di impiegare meno di 40 ore e invece ora si vede annullate e umiliate
le proprie aspirazioni in un'agonia di dolore, sofferenza e senso di fallimento.
Attenzione, 49 ritirati su 152 partiti non sono pochi. Praticamente un terzo. Mai vista una cosa
del genere.
Probabilmente è dovuta al fatto che molti atleti non hanno avuto l'elasticità mentale di cambiare il ritmo al
mutare delle circostanze.
Quando hanno notato che non c'era solo deserto, ma anche montagna. E, soprattutto, quando hanno visto che i 27 gradi
di massima descritti dal depliant per l'inverno in Mali erano in realtà oltre 40, avrebbero dovuto cambiare ritmo,
adattarsi, rallentare, riesaminare la loro strategia di gara.
È stata la sfida più dura della mia carriera-, dice Marco Olmo, il vincitore, che qui è a furor di popolo chiamato
il marziano.
Un atleta sui generis. Marco. Residente a Robilante, un paesino delle vallate del cuneense, 55 anni, gruista in
pensione, Olmo rappresenta un mito per gli appassionati dell'impossibile.
“A 25 anni decisi di fare l'autista di camion. Ero l'unico tra i miei colleghi che non fumava, non beveva e non andava
a puttane-”, ha scritto con il suo stile diretto in una breve autobiografia.Asceta del deserto. La sua specialità
sono queste gare infinite.
I 42 km della maratona sono troppo pochi per me. “Io sono un mulo di montagna-”, diceva l'altra sera sorseggiando
ennesimo bicchiere d'acqua. Nelle sue 21 ore e 46 minuti di gara ne ha bevuti oltre 20 litri. Adesso anche i concorrenti
più attenti alla dieta si lasciano andare a birre e Coca Cola. Olmo no. rigorosamente acqua, con un piccolo strappo
sul tè. Ovvio che sia una delusione per gli sponsor. Non crede negli integratori, non cerca pubblicità..
“Sono vegetariano. La mia dieta base consiste di michette, pasta, patate e farina di castagne-”, spiega a chi cerca il
segreto del suo successo. Perché il successo c'è stato. E totale.
Marco ha corso sempre solo. I giudici di gara non riuscivano a stargli dietro-. Andava troppo forte.
Dietro di lui due francesi trentenni, Patrice Kergosien, arrivato in 24 ore e 28 minuti, e Albert Valee (26h25').
Polunn atleta della squadra olimpica del Mali, Siaka Sanguare (30h47').
Ma in verità la Desert cup è una corsa per gente che sa stare sola e, anzi, cerca questa lunga Odissea nel deserto
per godersi in santa pace la notte, le stelle, l'alba e il tramonto senza l'ossessione dei soliti Impegni quotidiani.
“Sono venuta a cercare nella corsa del Mali la solitudine che a Milano non riesco più a trovare-”, dice Laura Corti, 35
anni consulente finanziaria per Fideuram, felice di avere terminato nel tempo ottimo di 45 ore e 53 minuti.
È la prima delle tre italiane, quinta sulle 17 donne partecipanti (prima è stata una francese, Katel Cornue in 33hI5').
Una solitudine che per la maggioranza del concorrenti è voluta.. Ho avuto modo di studiare il profilo del concorrente-tipo.
Si tende a credere che un occidentale pronto a correre per 180 km nel deserto sia un fallito, il personaggio in fuga
che cerca di compensare le proprie delusioni con queste prove assurde. E' vero il contrario.
“La maggioranza di noi sono professionisti affermati. Gente che ha preparato lo zainetto solo l'ultima sera prima di
partire perchè troppo carica di impegni”, spiega Salvo Catania, 56 anni, chirurgo oncologo al Policlinico Multimedica
di Milano, che ai 25 concorrenti italiani ha fornito tutte le indicazioni per prevenire la malaria.
“Una corsa magica, solo apparentemente per Supermen, in verità alla portata di molti, dove gli stessi regolamenti
aiutano a risolvere i problemi. Limite massimo. 62 ore in piena autosufficienza alimentare (almeno 2 mila calorie al
giorno), con una riserva d'acqua e cibo da non toccare mai, se non in caso d'emergenza. Sgarrare significa incorrere
in gravi penalizzazioni, che vanno da un' aggiunta di un'ora al proprio tempo, alle 3-4 ore se si chiede assistenza
medica. Ogni 21Km circa si trova un posto di controllo” dove vengono consegnati a ciascun concorrente alternativamente
una e due bottiglie d'acqua da un litro e mezzo.
Partenza dal villaggio di Dourou, alle porte della catena delle falesie di Bandiagara, il cuore del regno dei Dogon,
dove il Sallara meridionale diventa savana e va a morire sulle sponde del Niger. Pochi passi dopo, la maratona si
trasforma in un tuffo nell'Africa più tradizionale. Perché Dogon significa animismo di fronte al montare dell'islam,
montagne sacre antiche millenni, culto del Dio coccodrillo, cimiteri intarsiati nelle falesie come alveari raggiungibili
solo con vecchie corde fatte di liane.
I RITI
Dopo solo 15 Km dalla partenza, all'entrata del villaggio di Amanl si trova una pozza abitata da coccodrilli sacri,
riveriti, alimentati e protetti dalla popolazione, con i bambini che giocano a pochi metri Gruppi di donne pestano sementi a seno nudo.
Ti accorgi della povertà assoluta quando gli abitanti del villaggio fanno a gara nel contendersi
le bottiglie vuote dell'acqua minerale, che noi non sappiamo dove mettere una volta riempite le borracce.
I bambini guardano con curiosità le nostre barrette energetiche il momento più indimenticabile resta la notte.
Dopo il caldo soffocante arriva come una liberazione. Spariscono le paure di incontrare animali feroci.
Nessuno ne ha visti. Neppure serpenti.
Dalle abitazioni dei villaggi arrivano applausi di incoraggiamento.
Non si scorge alcuna luce oltre il cerchio della pila. Non c'è corrente elettrica, neppure l'ombra di un generatore.
Solo qualche focolare ancora acceso Indica la presenza di Vita. Ma la fine arriva davvero come una liberazione.
Terminiamo in 60 ore, appena dopo che l'ultimo sole è tramontato dipingendo le montagne di rosso.
di Lorenzo Cremonesi
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